30 aprile 2015 12:11

Perché Kurt Cobain si è ucciso? Perché la famiglia che aveva avventurosamente ricostruito per superare il trauma della separazione dei suoi genitori stava andando di nuovo in pezzi. Oppure, per dirlo usando solo una riga della sua lettera d’addio: “Non sopporto che Frances (la figlia, ndr) possa diventare il death-rocker miserabile e autodistruttivo che sono diventato io”.

È troppo? È troppo poco? Come si fa a “spiegare” un suicidio senza lasciar fuori qualcosa? Già l’uso di un termine come death-rocker avrebbe bisogno di una lunga nota a piè di pagina. C’è un repertorio intero di canzoni pop che provano a esorcizzare le peggiori paure dell’umanità, non è detto che ci riescano ma il risultato è complessivamente migliore della psicanalisi applicata alle spoglie delle rockstar e degli artisti maledetti del nostro tempo. Il documentario di Brett Morgen su Kurt Cobain, Montage of heck, non fa eccezione.

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Uno degli aneddoti più curiosi della storia del rock ci ricorda che i Pink Floyd provarono a curare Syd Barrett – col cervello fuso dagli acidi – accompagnandolo dall’antipsichiatra Dave Laing, nella sua comunità di recupero a Londra. Non riuscirono neppure a farlo scendere dalla macchina. Ottennero lo stesso una specie di diagnosi: “Laing disse che la causa del problema eravamo noi stessi”, riferì Nick Mason, “per il fatto di inseguire il nostro desiderio di successo, costringendolo a stare al passo con le nostre ambizioni”.

Da quel che sappiamo Cobain era il primo a sentire che i rituali tardocapitalisti del rock’n’roll erano del tutto inadeguati a curare la sua angoscia e anzi, probabilmente, la aggravavano. Nella stessa lettera (la cui inutilità a spiegare qualcosa è tuttavia pari a quella di qualsiasi altra ultima lettera) scriveva di invidiare Freddie Mercury per come amava essere adorato dalle folle. Lui no: “Il peggior crimine sarebbe fregare le persone fingendo che io mi diverta al cento per cento”.

Si tratterebbe oltretutto di celebrare una memoria oggi quasi incomprensibile a chi è nato dopo. Kurt Cobain fu tuttavia l’ultima rockstar di epoca preinternet; la sua fragilità (“inadeguatezza”, direbbe Nanni Moretti) era un buco nero, uno strappo nel moloch del discorso pubblico orchestrato dai media generalisti (al contrario, si potrebbe notare che la rete oggi non è nient’altro che una somma di infinite fragilità), perché rivendicava l’infelicità e il dolore degli esclusi dal carnevale reaganiano degli anni ottanta e dei suoi interminabili post.

Brett Morgen ha l’età giusta per ricordarlo: la ripetizione blobbistica nel montaggio delle reazioni di Cobain alle richieste di interviste sceme, i backstage imbarazzanti, le registrazioni di ident (“hi, we’re Nirvana, and you’re watching Mtv”) è una delle sue idee più felici, perché dice molto con pochissimo. Il resto, tutto il contrario. Dice poco con moltissimo.

Montage of heck mette in fila due ore e un quarto di immagini pubbliche e private (superotto e video), animazione virtuosistica delle parole e disegnini nei diari di Cobain (e la sua voce si sente a lungo nella registrazione nell’ultima intervista del giornalista David Fricke per Rolling Stone), un cartone animato vero e proprio, i ricordi dei familiari oggi: il padre e la sua nuova moglie, la madre, il bassista dei Nirvana Krist Novoselic, la prima fidanzata e la moglie Courtney Love, la figlia Frances.

La pelle troppo sottile

Nonostante la mole di lavoro, la quantità di materiale disponibile, l’accesso a tutte le fonti d’archivio rese possibili dall’autorizzazione della famiglia, il regista capovolge ogni aspettativa retorica. Cancella lo sfondo pubblico (e politico), sbianchetta i personaggi (per quanto spiegata e rispiegata come una somma di casualità è semplicemente incredibile l’assenza del batterista Dave Grohl tra gli intervistati), elimina ogni riferimento al mese intero che passa tra il tentativo di suicidio a Roma e il suicidio effettivo a Seattle, un tuffo nel nulla mai completamente ricostruito se non nelle complottistiche versioni (ma proprio per questo estremamente interessanti ai fini della mitologia di questa storia) che vorrebbero indovinare un omicidio al posto del suicidio.

Il rispetto, il “ricordiamocelo da vivo”, l’autorizzazione dei familiari. Sono spiegazioni incomplete. Brett Morgen rivendica con forza il final cut sul suo lavoro. L’idea è quella di farci guardare il mondo con gli occhi di Kurt Cobain, eternamente bloccati nel trauma solitario dei suoi sette anni. Immedesimarci nell’angst del figlio di divorziati e del figliastro respinto, che vuole essere riamato (ma non genericamente, da svariati milioni di suoi coetanei).

Comprendere lo smarrimento del genitore che non ha capito, non ha voluto né potuto. Dare un spiegazione alla depressione dell’ex figlio diventato marito geloso e padre inadeguato, condannato a ripetere tutti gli errori che l’hanno fatto soffrire così, che nessuna medicina riesce a lenire. È quasi la trama di Incompreso, ma non farò facili ironie su questo: non lo meritano né i figli, né i padri, né Cobain.

Però. Una lunga sequenza di Montage of heck ricorda qual era il suo film preferito a dodici anni: Over the edge, la rivolta violenta dei ragazzi in un quartiere modello americano del 1979. Con Matt Dillon. E Ronald Reagan alle porte.

Ci sono molti modi per celebrare le canzoni con le quali sei diventato grande. Questo non è il migliore. Montage of heck è un film da crisi di mezza età, una parodia involontaria dei filmetti giovanilisti-psichedelici degli anni sessanta. Un regista quasi cinquantenne ritrae il suo coetaneo artista che non ce l’ha fatta perché aveva “la pelle troppo sottile”.

Si rivolge ai quasi cinquantenni che lo andranno a vedere – qualcuno ci porterà i figli – e tutti assieme a meditare sui traumi che come genitori possiamo causare noi a loro. E loro a noi, probabilmente.

Il risultato involontario è che fanno ancora spavento, montate nel documentario (e aggiunte di riprese rare del backstage e delle prove), le immagini dell’Mtv Unplugged dei Nirvana: il “funerale” televisivo segretamente orchestrato per se stesso da Kurt Cobain, in mezzo ai lillà e alle candele accese a pochi mesi dal suo suicidio, replicato decine di migliaia di volte nei vent’anni passati da allora. Che non ne vogliono sapere di stare dentro il film.

Quando intona l’ultima canzone Where did you sleep last night? – l’ha imparata su un vecchio disco di Leadbelly grazie a un suo amico musicista di Seattle, Mark Lanegan – la condanna a ripetere da adulti sempre la stessa spirale ancestrale di tradimento, gelosia, smarrimento, colpa, morte, “Ragazza mia, ragazza mia, non dirmi bugie. Dove sei andata a dormire stanotte?”, e lo grida nell’ultima strofa strozzando le corde vocali, quella è la sua migliore performance di sempre. Lui lo sa, perché è un miserabile e autodistruttivo death rocker. E al produttore dello show che lo invita a suonare ancora, risponde: “No. Non posso fare niente meglio di così”.

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