02 maggio 2016 10:03

Il governo di Nicolás Maduro ha ordinato che i dipendenti pubblici lavorino solo due giorni alla settimana per risparmiare energia elettrica, e questo accade in un paese che ha le più grande riserve di petrolio al mondo ed è il dodicesimo per produzione. Sono stati programmati anche blackout di quattro ore al giorno nei dieci stati più popolati e industrializzati dei 24 che formano il Venezuela. A parte gli effetti sulla vita quotidiana, al buio non possono funzionare ospedali e scuole. Le interruzioni nella fornitura di luce hanno suscitato le proteste dei cittadini e causato atti di vandalismo e repressione, aggravando la crisi politica, economica e sociale venezuelana.

Sono almeno due le ragioni di questa crisi energetica. Da una parte, come ha detto il presidente Maduro, c’è la siccità, la peggiore in duecento anni di storia, che sta mettendo in crisi le centrali idroelettriche, costruite negli anni sessanta e settanta, che coprono due terzi del consumo elettrico interno. Per generare elettricità è più conveniente usare l’acqua invece del petrolio, che può essere esportato e venduto in dollari. Dall’altra, la crisi economica ha messo in luce la mancanza di investimenti nelle infrastrutture. “Non si fa manutenzione delle centrali che potrebbero sostituire l’energia idroelettrica, non capisco perché non ci siano più centrali petrolifere”, dice Óscar Ugarteche, un economista peruviano che insegna all’Universidad nacional autónoma de México (Unam).

La fine di una fase di crescita

Nel 1999, l’arrivo al governo di Hugo Chávez segnò una svolta in America Latina, dopo anni di politiche neoliberiste, di tagli che colpivano la maggioranza della popolazione e di corruzione. La svolta a sinistra in Venezuela e in molti altri paesi non è stata accompagnata da una rivoluzione dell’onestà, ma comunque in tutta la regione la povertà e la disuguaglianza sono diminuite mentre aumentavano i prezzi delle materie prime, da cui Messico e Sudamerica dipendono molto.

In un paese come il Venezuela, dove il petrolio rappresenta l’88 per cento delle esportazioni, quando il prezzo del greggio è salito dai 15 dollari del 1999 ai 140 del 2008, la spesa pubblica per il welfare è potuta passare dal 12 al 20 per cento del pil, la povertà è diminuita dal 49 al 23 per cento e la disuguaglianza misurata dal coefficente di Gini è scesa dallo 0,48 allo 0,39 (1 è il massimo dell’iniquità). Questa fase politica, economica e sociale è finita.

Il Venezuela, come l’Arabia Saudita, pensa che con il petrolio si compri tutto, è così dagli anni settanta

Adesso un barile di petrolio costa 45 dollari, e secondo uno studio delle università Católica Andrés Bello, Central de Venezuela e Simón Bolívar la povertà colpisce il 76 per cento della popolazione. Nel 2013 l’indice di Gini era tornato a 0,40 e la spesa sociale si è ridotta al 17 per cento del pil. “La distribuzione della ricchezza e il pil sono migliorati finché il prezzo del petrolio è aumentato. Quando ha cominciato a scendere… non so proprio che fine abbiano fatto tutti quei progressi. Un sistema di sussidi statali funziona solo finché lo stato è pieno di soldi”, dice Ugarteche.

La diffusione di migliori condizioni di vita si è rivelata poco sostenibile. L’economia venezuelana continua a dipendere dal petrolio, è così dagli anni ottanta. “Negli ultimi vent’anni è stato fatto poco per sviluppare la produzione alimentare o di altri settori”, spiega il professore dell’Unam. Le numerose espropriazioni hanno acuito la dipendenza economica dal greggio, non perché le aziende pubbliche latinoamericane siano gestite male per natura, ma per ragioni più locali. “Il Venezuela, come l’Arabia Saudita, pensa che con il petrolio si compri tutto, è lo stesso problema dagli anni settanta”, dice Ugarteche.

Un brutto segno

L’intera regione latinoamericana ha vissuto il boom dei prezzi delle materie prime senza migliorare i suoi investimenti, necessari per ammodernare le infrastrutture energetiche o per diversificare il sistema produttivo. Nel 1998, gli investimenti in macchinari ed edilizia rappresentavano il 29 per cento del pil. Nel 2013 erano il 22 per cento. Non è un problema solo del Venezuela: nessun paese in America Latina investe il 44 per cento, come la Cina. Gli investimenti reali in Brasile rappresentano solo il 20 per cento della sua economia; in Messico il 21 per cento; in Argentina il 17 per cento; in Colombia il 26 per cento; in Cile il 22 per cento.

Nel 2016 l’economia venezuelana si contrarrà per il terzo anno di seguito, ma stavolta, secondo le previsioni di banche e agenzie di rating consultate dalla FocusEconomics, la diminuzione raggiungerà il 7,2 per cento. L’inflazione salirà al 295 per cento. Oltretutto, c’è scarsità di cibo e di medicine non solo nei negozi, ma addirittura negli ospedali. “È orribile che questo accada in Venezuela, mentre Dilma Rousseff è sotto attacco in Brasile e in Argentina è in atto un cambiamento politico. Mi sembra un brutto segno da parte del Mercosur. Il fallimento di un’alternativa al neoliberismo è una cattiva notizia”, si dispiace Ugarteche. E non solo lui.

(Traduzione di Francesca Rossetti)

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