Il 20 ottobre prossimo comincerà a Taranto il processo Ambiente svenduto, in cui sono imputati non solo i Riva e i massimi dirigenti del più grande stabilimento siderurgico italiano, l’Ilva, ma anche i rappresentanti politici e istituzionali che negli ultimi anni, secondo la procura, non si sono opposti al disastro ambientale.

Tra questi, è stato rinviato a giudizio anche l’ex presidente della regione Puglia Nichi Vendola. Secondo la procura, avrebbe fatto pressioni su Giorgio Assennato, direttore dell’Arpa (Agenzia regionale per la protezione ambientale), affinché ammorbidisse la sua linea di intervento contro il colosso industriale.

Respingendo tale accusa Vendola ha sempre sostenuto di essere stato invece il presidente della prima giunta regionale che ha varato delle leggi ambientali innovative e ha provato a porre dei paletti alla produzione inquinante, nonostante sia stato eretto intorno all’Ilva un muro di gomma da parte dei governi nazionali.

Sarà un processo presumibilmente molto lungo, come già molto lunga è stata la fase preliminare che si è conclusa con le richieste di rinvio a giudizio.

L’inquinamento è l’altra faccia della medaglia della distorsione delle relazioni di lavoro sotto gli altiforni

Al di là dei risvolti politici, il filone centrale del processo riguarderà però un modo di produrre acciaio che si è fatto sistema impenetrabile, accettando come conseguenze il disastro ambientale, l’aumento netto dei tumori in tutta la città, l’avvelenamento del cibo, della terra, delle falde acquifere.

Spirito coloniale

E riguarderà anche i cosiddetti fiduciari, cioè i massimi dirigenti di una “struttura ombra” messa in piedi dai Riva con il compito di controllare dall’interno i dipendenti e l’intero stabilimento. I “fiduciari”, vero anello di congiunzione tra i Riva e la fabbrica, non figuravano nell’elenco ufficiale dei dirigenti, benché il loro potere fosse di fatto molto maggiore di quello di qualsiasi quadro.

E ciò dimostra con quale miscuglio di spirito coloniale e senso di extraterritorialità sia stato edificato il sistema Riva a partire dalla metà degli anni novanta. L’inquinamento all’esterno è stato da sempre l’altra faccia della medaglia della distorsione delle relazioni di lavoro sotto gli altiforni.

Parallelamente al maxiprocesso, la vicenda Ilva sembra comunque essere giunta a un bivio decisivo: o si completano tutte le misure di ammodernamento degli impianti, annunciate dal governo e dalla struttura commissariale creata appositamente per dirigere questa fase, o l’intreccio tra non interventi, perdita di quote di mercato, assenza di una reale bonifica, incertezze lavorative diventerà nuovamente esplosiva.

Un enorme grattacapo

Due sembrano essere però le principali incognite sull’attuazione del piano del governo. La prima riguarda il reperimento dei fondi necessari per attuare i lavori di “ambientalizzazione”. Il governo dispone di 400 milioni di euro, ma mancano ancora 1,2 miliardi di euro necessari per avviare i lavori più importanti, come la copertura dei parchi minerali (finora il minerale, a Taranto, è sempre stato tenuto per ettari e ettari all’area aperta, a ridosso del quartiere Tamburi).

Gli 1,2 miliardi su cui conta il governo sono quelli sequestrati ai Riva dal tribunale di Milano in un processo per truffa ai danni dello stato. Quei soldi risultano però ancora bloccati in un conto in Svizzera; su di essi pende un ricorso della famiglia che ha sospeso le procedure di trasferimento, e pertanto non si sa ancora quando potranno essere utilizzabili.

Dovrebbero allora intervenire i nuovi colossi mondiali dell’acciaio, come gli indiano-lussemburghesi dell’ArcelorMittal. Ma questi, dopo aver mostrato un interesse iniziale, si sono dimostrati ultimamente molto più freddi. Dal momento che vorrebbero intervenire solo dopo che il governo italiano avrà già ultimato tutti i lavori di trasformazione degli impianti, giudicano ancora il caso Ilva un enorme grattacapo.

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