14 aprile 2022 15:06

Quando si parla del ruolo e del comportamento degli Stati Uniti sulla crisi ucraina, una delle critiche più frequenti rivolte all’amministrazione del presidente Joe Biden è quella di non essere veramente interessata a risolvere il conflitto ma di voler provocare Putin per giustificare un’escalation militare e un cambio di regime a Mosca.

Queste critiche sono diventate più forti dopo il discorso pronunciato da Biden a Varsavia il 26 marzo. Molti hanno interpretato le sue parole contro Putin, “un macellaio” che “non può restare al potere”, come una dimostrazione ulteriore del bellicismo non solo della Casa Bianca nella crisi ucraina ma, più in generale, della società statunitense nel suo complesso. L’idea che gli Stati Uniti siano un paese che tende irrimediabilmente all’interventismo militare e a imporre la propria volontà al resto del mondo – indipendentemente da chi sia il presidente – è una di quelle tesi preconfezionate di cui abbondano le analisi dell’ultimo mese e mezzo, e che non aiutano a capire la crisi ucraina né le potenziali conseguenze per la politica internazionale.

L’orientamento degli statunitensi sulle guerre e sulla posizione del loro paese nel mondo è cambiato molto nel corso degli anni, e comunque non è mai omogeneo in un determinato momento storico. È importante tenerlo presente, se si vogliono provare a capire le scelte prese a Washington.

L’opinione pubblica è cambiata
Le conseguenze tragiche delle guerre in Afghanistan e in Iraq, spiega un articolo uscito tempo fa su FiveThirtyEight, hanno reso l’opinione pubblica molto meno propensa ad accettare la possibilità di mandare soldati statunitensi all’estero. “Quando la guerra al terrorismo di George W. Bush si estese all’Iraq, nel 2003, una maggioranza schiacciante degli americani (76 per cento) sostenne l’invasione. Otto anni dopo, nel 2011, una nuova maggioranza era contraria a colpire il regime libico durante la primavera araba. E nel 2017 solo il 50 per cento dell’opinione pubblica approvò gli attacchi lanciati da Donald Trump per punire il dittatore siriano Bashar al Assad per l’uso delle armi chimiche”.

Anche i cambiamenti demografici aiutano a spiegare questa dinamica. Con il passare degli anni una quota sempre più grande dell’elettorato è composta dagli adulti che sono nati e cresciuti dopo la fine della guerra fredda o dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. Queste generazioni (più variegate dal punto di vista razziale) tendono meno delle precedenti a pensare che gli Stati Uniti siano minacciati, quindi si interessano meno alla politica estera e di più ai problemi interni. Questo però non significa che gli americani si siano ritirati completamente dal mondo o che siano irrimediabilmente su posizioni isolazioniste. Un sondaggio del Chicago council on global affairs mostra che la maggioranza dell’opinione pubblica statunitense è favorevole alle iniziative per difendere gli alleati minacciati.

Gli Stati Uniti si sentono minacciati dalla Cina molto più che dalla Russia

Questo ci porta all’Ucraina. I sondaggi condotti finora mostrano che la grande maggioranza dell’opinione pubblica statunitense (più dell’80 per cento) vuole fare il possibile per aiutare il paese ma senza intervenire direttamente nel conflitto. Un orientamento che in fondo combacia quasi perfettamente con il modo in cui l’amministrazione Biden ha gestito la crisi finora: dare agli ucraini le armi che servono per respingere la Russia (armi anticarro e missili antiaerei), ma non quelle che potrebbero mettere l’Ucraina in condizione di attaccare la Russia (carri armati e aerei militari); approvare sanzioni economiche di vasta portata ma senza chiedere il blocco totale delle esportazioni di energia della Russia, come invece aveva fatto l’amministrazione Obama con l’Iran nel 2012.

Anche il discorso di Biden a Varsavia dello scorso 26 marzo, quello che ha fatto indignare gli europei, si inserisce in questo scenario. Il presidente, rivolgendosi a Putin, ha detto: “Non pensare nemmeno a entrare anche solo di un centimetro in territorio della Nato”. Secondo l’Economist, “gli ucraini hanno interpretato quella frase come un via libera ai russi per dare il peggio di sé in Ucraina. Allo stesso modo, dicendo ‘dobbiamo prepararci per una battaglia lunga’, voleva dire che gli Stati Uniti non faranno niente per fermare presto gli orrori”.

Questa deliberata ambiguità si spiega naturalmente con il fatto che la Russia è una potenza nucleare, ma anche con il fatto che l’Ucraina non è al centro degli interessi statunitensi come lo è, per esempio, Taiwan, e che gli Stati Uniti si sentono minacciati dalla Cina molto più che dalla Russia.

Con i russi sempre più in difficoltà sul campo di battaglia, continua l’Economist, “a Washington aumenteranno le pressioni su Biden perché aiuti in ogni modo Volodymyr Zelenskyj a sconfiggere l’esercito russo. Una vittoria degli ucraini rivitalizzerebbe la democrazia e potrebbe anche portare alla caduta di Putin. Ma Biden è più interessato a quello che succederà nel lungo periodo: l’Ucraina si sta difendendo, la Russia si indebolisce e la Cina sta pagando un costo politico per il sostegno a Putin”.

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