05 maggio 2010 00:00

Tra i giornalisti di Ha’aretz presenti, ero sicuramente la meno colpita. Su richiesta dell’autorità carceraria israeliana ho visitato con una trentina di colleghi una prigione nel centro del paese.

I motivi dell’invito erano chiari: nelle ultime settimane Ha’aretz ha pubblicato alcuni articoli che denunciavano le condizioni nelle carceri israeliane, e i responsabili volevano illustrarne gli aspetti positivi. Per esempio, ci hanno svelato i dettagli di un piano di riabilitazione fisica, psicologica e professionale dei prigionieri.

I detenuti che abbiamo incontrato, condannati a pene tra i tre anni e l’ergastolo, non ci hanno dato motivo di dubitare della buona fede dei responsabili. Uno degli obiettivi è ridurre la percentuale dei detenuti che tornano in prigione (il 62 per cento, senza contare i prigionieri politici palestinesi che sono un caso a parte).

Nonostante questo, i miei colleghi sono rimasti impressionati dai volti rassegnati dei prigionieri e dall’atteggiamento autoritario delle guardie. Io, invece, ho notato che le detenute potevano passeggiare in cortile. Ho notato che gli uomini potevano muoversi senza catene. Soprattutto ho notato che i prigionieri potevano usare il telefono. Che lusso! I prigionieri politici, che non ricevono visite da tre anni, darebbero qualsiasi cosa per parlare almeno una volta con le loro famiglie.

Conosco bene le condizioni di vita dei prigionieri politici palestinesi. Ecco perché sono rimasta meno colpita dei miei colleghi.

*Traduzione di Nazzareno Mataldi.

Internazionale, numero 845, 7 maggio 2010*

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