28 ottobre 2010 00:00

“No, non sono a Ramallah. Sono a Gerusalemme. No, non sono a un concerto. Sono in strada”. La persona con cui parlavo al telefono era un po’ confusa ma è facile capire perché.

Stavo ascoltando un suonatore di oud a Gerusalemme Ovest. Non ero l’unica persona affascinata da quelle note. C’era anche un vecchio in carrozzella, che ascoltava a occhi chiusi. Il vecchio sembrava avere origini ashkenazite (e quindi la musica araba non era nel suo dna culturale). Per un momento ho sperato che il suonatore fosse arabo, come la musica. Dopotutto Gerusalemme Est non era lontana. Fosse stato palestinese sarebbe stata una piccola vittoria contro il razzismo. Ma dai cd in mostra in strada ho capito che era un ebreo marocchino: il cognome era Abekasis.

In un momento di pausa ho cercato di fare due chiacchiere con lui, senza successo. Dalle poche parole che ha pronunciato ho capito però che aveva conservato la corretta pronuncia ebraica. La lingua attuale è stata imposta dagli ebrei ashkenaziti, che non sapevano pronunciare alcune consonanti, e così ha perso alcune sfumature. La pronuncia corretta, che conservano solo gli ebrei dei paesi arabi, è diventata un simbolo di “inferiorità” sociale.

Ho dato un’occhiata al cd di Abekasis. “Ho composto tutto in onore dell’onnipotente”, recitava il libretto. Il cd s’intitolava Shavatenu (le nostre invocazioni), come la prima canzone. Il testo diceva così: “Tu sei il nostro Dio, tu vedi la sofferenza di Israele”.

*Traduzione di Nazzareno Mataldi.

Internazionale, numero 870, 29 ottobre 2010*

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