06 gennaio 2011 00:00

Scena 1, Gerusalemme. Una stanza con quattro persone: io, due giovani ebrei ortodossi, membri dell’ong Breaking the silence, e Zackie Akhmat, dell’African national congress, ex militante antiapartheid in Sudafrica. Akhmat ci parla del suo paese.

“All’epoca dell’apartheid c’erano le pensioni per i bianchi, quelle per le persone di sangue misto e quelle per i neri. I neri delle zone rurali non ricevevano niente. Oggi tutti hanno gli stessi diritti, anche se gli assegni sono molto bassi. Il sostegno all’infanzia era assicurato solo ai bianchi, mentre le persone di sangue misto ricevevano la metà e i neri niente”.

“Tranquillo, presto ci arriveremo anche noi”, non posso fare a meno di dire, dipingendo uno scenario esagerato per esprimere i nostri timori per il futuro. I due giovani ridono, ma è un riso amaro.

Scena 2, Ramallah. La mia amica sta per ottenere il divorzio al tribunale religioso musulmano. L’accompagno per sostenerla e per curiosità. Lei è una palestinese che vive in Israele, mentre suo marito vive nei Territori. Il loro contratto di matrimonio (religioso) è israeliano. Superiamo vari uffici e un consulente matrimoniale (inutile) prima di raggiungere l’ufficio del giudice.

I testimoni sono amici comuni. Arriva per primo N. Mi vede e sorride: “Tu sei solo mezzo testimone. Dov’è l’altra metà?”. Non è una battuta: la legge islamica richiede due testimoni di sesso maschile o quattro donne. “In realtà sono un quarto di testimone: donna e anche ebrea”, rispondo.

*Traduzione di Nazzareno Mataldi.

Internazionale, numero 879, 7 gennaio 2011*

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