27 gennaio 2011 00:00

Per i lettori e i telespettatori stranieri, abituati dai mezzi d’informazione a pensare ai negoziati come a un “processo di pace” andato a monte chissà perché, le rivelazioni dei Palestine papers sono forse state clamorose. Viste da qui, cioè dalla Cisgiordania occupata, non fanno lo stesso effetto.

A metà del lontano 1997 rimasi bloccata al check point di Erez, l’ingresso nord nella Striscia di Gaza, chiuso per ore ai visitatori. Non lontano, sul versante palestinese, la segretaria di stato americana Madeleine Albright partecipava a un incontro con alti dirigenti palestinesi e israeliani. In quel momento un centinaio di genitori e figli di detenuti palestinesi tornavano da Israele, dove erano andati a trovare i parenti in prigione.

Si erano svegliati alle 3 del mattino e avevano affrontato un viaggio di ore per poter passare con i loro familiari una mezz’oretta. Tornati esausti, erano stati costretti a restare chiusi a bordo degli autobus fuori dal check point, sbarrato perché gli alti papaveri erano in riunione. Le ore passavano e la rabbia si accumulava. A un certo punto avvistammo un’auto di lusso che usciva da Gaza. A bordo c’era Abu Ala, uno dei leader di Al Fatah. I parenti dei carcerati circondarono l’auto implorandolo di “fare qualcosa”. Lui non li guardò né disse una parola.

Leader indifferenti

In questi ultimi 17 anni di negoziati diretti tra israeliani e palestinesi, ci sono stati migliaia di episodi del genere. Da cui si potrebbero trarre varie conclusioni sull’arrendevolezza dei funzionari palestinesi verso i loro interlocutori “superiori” (israeliani e statunitensi) o sulla stridente contraddizione tra le loro solenni dichiarazioni (per esempio sull’affetto verso i palestinesi incarcerati) e il loro atteggiamento (e la loro indifferenza) reale.

Quella palestinese è una società piccola, dove tutti si conoscono, e nessun segreto rimane tale a lungo. Più ci si avvicina alla cerchia di Al Fatah, più è facile captare impressioni, riflessioni e informazioni che vengono dal suo interno. “Per arrestare quelli di Hamas noi collaboriamo con gli agenti della Cia”, mi ha detto di recente un funzionario dell’intelligence palestinese.

Da un esponente di Al Fatah ho saputo che Abu Mazen, presidente dell’Olp e dell’Autorità nazionale palestinese, ha chiesto agli alti dirigenti di Al Fatah di non partecipare ai cortei contro il Muro, per evitare che gli israeliani si vendicassero revocandogli i permessi di viaggio di cui beneficiano in quanto vip. E quando non lo fanno i palestinesi, sono fonti israeliane a far trapelare alla stampa la stretta collaborazione che c’è tra le forze di sicurezza israeliane e palestinesi.

La complicità dell’occidente

Perciò i Palestine papers non rivelano molto ai comuni palestinesi. E non dicono tutto quel che c’è da sapere. Per quanto siano sconvolgenti, le rivelazioni sul fatto che è stata l’Autorità palestinese a chiedere agli israeliani di rafforzare l’assedio su Gaza confermano quello che i comuni mortali di Ramallah sapevano già nell’estate del 2007: erano soprattutto i ministri dell’Anp di Gaza (in esilio a Ramallah) a sperare che Israele tagliasse del tutto l’erogazione di corrente elettrica alla Striscia. L’indifferenza verso Gaza è un tratto distintivo – e non da oggi – dei leader politici della Cisgiordania.

Quel che invece i documenti mettono in luce è la complicità degli occidentali (cioè di americani e britannici) con la politica e gli atteggiamenti arroganti di Israele. Basta pensare all’insistenza dei funzionari statunitensi sul fatto che i leader palestinesi devono essere Abbas e Salam Fayad e nessun altro. E questo mi ricorda anche un altro episodio.

Nel 1998, in un raro gesto di sfida, Yassir Abd Rabbo, capo della delegazione palestinese per i negoziati, chiese una sospensione delle trattative dicendo: non possiamo andare avanti finché gli israeliani continuano a costruire gli insediamenti. Una o due settimane più tardi le trattative ripresero. A quanto mi risulta, Albright prese il telefono e ordinò ad Arafat di risedersi al tavolo.

Segreti di Pulcinella

Un’altra cosa che questi Palestine papers ci dicono è che i negoziatori palestinesi sono elastici e tenaci: e su questo la contraddizione tra dichiarazioni pubbliche e cose dette a porte chiuse è minima. I dirigenti palestinesi non si sono piegati alla pretesa israeliana di inglobare alcuni insediamenti colossali. Certo, erano disposti a scambiare le colonie nei dintorni di Gerusalemme con terre disabitate: concessione amara ma in linea con il piano di Clinton del 2000.

E anche la loro rinuncia più grande, quella alla piena applicazione del diritto al ritorno dei profughi, è un segreto di Pulcinella da anni. “Quando pretendiamo una soluzione a due stati”, mi ha detto anni fa un alto dirigente di Al Fatah, “non intendiamo mica due stati palestinesi”.

Insomma, queste notizie sui negoziati confermano solo quel che già sappiamo da vent’anni, e cioè che Israele non vuole la pace, ma imporre una resa ai palestinesi. E l’Autorità Nazionale Palestinese, malgrado tutti i suoi difetti, non può cedere. Si adatta a uno status quo umiliante (e conveniente per le élite) sperando che la comunità internazionale intervenga per amore della stabilità mondiale. Ma non firma certo una resa.

*Traduzione di Marina Astrologo.

Internazionale, numero 882, 28 gennaio 2011*

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