24 febbraio 2011 00:00

Una donna di mezza età, senza velo e vestita con un tailleur pantalone, era circondata da sei uomini con la barba e la tunica grigia, segni della loro religiosità. Era venerdì 18 febbraio, a piazza Tahrir, nel mezzo di quello che dovrebbe essere un appuntamento settimanale da ripetere finché non saranno soddisfatte le richieste della rivoluzione.

L’enorme adunata – alcuni dicono un milione di manifestanti – era diverse cose insieme. Innanzitutto una preghiera collettiva: rispetto ai giorni della rivoluzione c’erano più persone che pregavano e più sostenitori dei Fratelli musulmani. Era anche una celebrazione della vittoria e un giorno di picnic per le famiglie. E inoltre era un seguito della protesta: alcuni chiedevano di sciogliere il governo provvisorio, altri di rilasciare i rivoluzionari incarcerati e i prigionieri politici.

Ovunque c’erano capannelli di persone che discutevano di politica. Quando mi sono avvicinata al gruppetto intorno alla donna con il tailleur, ho sentito che parlavano dell’enorme ricchezza accumulata da Mubarak e dell’opportunità di distribuirla ai poveri. La donna proponeva di cambiare il sistema fiscale e introdurre una tassazione progressiva. Gli uomini annuivano.

Voglia di uguaglianza

Anche se la riforma fiscale non è tra gli obiettivi della rivoluzione, ho notato che il tema della disuguaglianza ritorna nelle conversazioni private. “Io pago la stessa aliquota di Ahmed Izz (un miliardario vicino a Mubarak, ora in carcere)”, mi ha detto A., un medico che ha collaborato ai tentativi di riforma del sistema sanitario. Secondo A. l’aliquota fiscale unica (del 20 per cento) è una delle cause dell’inefficienza della sanità egiziana. “Le famiglie pagano quasi il 70 per cento delle loro cure mediche, lo stato il resto”, mi ha detto. Forse le persone non discutono di politica fiscale perché non hanno ancora un salario minimo. La soglia stabilita da Mubarak è di 400 sterline egiziane. Ma secondo i sindacati una famiglia ha bisogno di almeno 1.200 sterline egiziane (150 euro) per vivere dignitosamente.

Il 22 febbraio, rispondendo a un appello su Facebook, circa quattromila persone si sono raccolte in piazza Tahrir per chiedere lo scioglimento del governo provvisorio. Lo stipendio non è la preoccupazione principale della rivoluzione, che ha unito i lavoratori e i ricchi. “Cosa la porta qui?”, ha chiesto un tipo a una mia nuova conoscente. “Lei sembra benestante, a differenza di me che devo fare tre lavori per tirare avanti con la famiglia”. “È vero”, ha risposto lei, “non sono qui per delle richieste economiche, ma per il desiderio di libertà. E anche il fatto che l’80 per cento delle persone non possa vivere decentemente è un buon motivo per essere qui”.

Oggi sembra che questa unità si stia incrinando. Il primo ordine del consiglio supremo delle forze armate era rivolto ai lavoratori, perché sospendessero gli scioperi. Quelli di sinistra si sono allineati alla richiesta. “Due milioni di persone sono disoccupate perché l’industria del turismo è paralizzata”, mi ha spiegato uno di questi sostenitori della rivoluzione ricco e ben vestito. La caccia agli alti funzionari corrotti fa passare in secondo piano la necessità di invertire la logica della distribuzione della ricchezza. Ma è prematuro dare giudizi. Questa rivoluzione ci sta insegnando a dubitare di previsioni e pronostici.

*Traduzione di Nazzareno Mataldi.

Internazionale, numero 886, 25 febbraio 2011*

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