26 aprile 2011 11:02

L’assassinio di Vittorio Arrigoni è stato il terzo di una serie che ha sconvolto i palestinesi. Fra i tre omicidi, è sicuramente quello che ha suscitato più proteste e indignazione. Le forze di sicurezza di Hamas sono state rapide nel rintracciare i presunti rapitori e ucciderne due. Invece la polizia dell’Autorità Nazionale Palestinese non è stata altrettanto veloce nell’individuare i responsabili dell’omicidio dell’attore e regista ebreo-palestinese Juliano Mer Khamis, ucciso il 4 aprile a Jenin, in Cis­giordania.

Mer Khamis e Arrigoni avevano deciso di vivere tra i palestinesi come segno di solidarietà, di sostegno e di resistenza alle politiche di Israele. Mer Khamis, che era palestinese, criticava direttamente quella che considerava l’arretratezza della Palestina. Per questo aveva ricevuto minacce e il suo teatro era stato incendiato. Dopo la sua morte, qualcuno ha fatto capire ai suoi parenti e ai colleghi che non devono riaprirlo.

L’Autorità Nazionale Palestinese non sembra aver fretta di trovare il suo assassino, anche se ha infranto la legge e ha sfidato la pretesa del governo di aver ristabilito l’ordine pubblico. Forse le autorità temono che l’assassinio sia indice di un sentimento di forte ostilità popolare nei confronti dell’attività e del messaggio lanciato da Mer Khamis e che un eventuale processo potrebbe scoperchiare un imbarazzante vaso di Pandora.

L’omicidio di Arrigoni, invece, non rientra in nessuna categoria socialmente accettata. Va contro tutte le logiche e i sentimenti di questa società assediata. È una sfida al potere e all’orgoglio di Hamas. Resta da chiarire se la morte di Arrigoni sia dovuta a un tentativo di mandare a monte i negoziati o se si sia voluto colpire un occidentale, colpevole di non essere musulmano. Le società dilaniate e assediate, come l’Iraq e il Libano, tendono a produrre questi gesti autolesionisti. Che si tratti di pura follia o di un cinico calcolo politico-religioso, il risultato non cambia: il pericolo è che giovani frustrati, mai usciti dalla gabbia, indottrinati da oscure interpretazioni delle sacre scritture, finiscano per imitare questi gesti. Se Israe­le non rinuncerà al ventennale assedio di Gaza, siamo sicuri che Hamas riuscirà a fermare gli eventuali imitatori?

C’è anche un terzo omicidio. Il 17 aprile i servizi segreti israeliani hanno reso noti i nomi di due persone sospettate di aver ucciso una famiglia di coloni nell’insediamento di Itamar. L’annuncio arriva dopo un mese di raid notturni, coprifuoco, perquisizioni, arresti e abusi nel villaggio palestinese di Awarta, a sud di Nablus, in Cisgiordania, da dove provengono i due sospetti. In precedenza molti palestinesi avevano creduto alle voci secondo cui l’assassino era un immigrato tailandese. Ma non ci sono tailandesi a Itamar.

Gli omicidi di Arrigoni e Mer Khamis sono stati condannati sia dalle ong vicine ai palestinesi sia dalle autorità locali. Il massacro della famiglia di coloni è stato condannato da alti funzionari dell’Autorità Nazionale Palestinese e dal comitato popolare di resistenza di Bil’in. Tuttavia altri gruppi e ong hanno criticato il comitato di Bil’in per aver parlato anche a nome loro. Secondo alcuni militanti condannare apertamente l’omicidio di un colono, anche se si tratta di un bambino, equivale a un tradimento.

Nonostante tutto, le voci sul presunto assassino tailandese riflettono il fatto che la popolazione non crede che un palestinese abbia potuto davvero massacrare tre bambini. Secondo un abitante della zona, “non può essere uno di noi perché l’islam proibisce di uccidere un bambino, un anziano o una donna. E di sradicare un albero”. Sono lontani i tempi del sostegno generalizzato agli attentati suicidi contro i civili.

Onda d’urto

Negli ultimi undici anni la società palestinese è stata brutalizzata dai militari israeliani. Le morti crudeli e innaturali sono diventate parte della quotidianità. La società palestinese, in cambio, ha avallato una delle più primitive e selvagge forme di vendetta, le bombe umane, e si è abbandonata a una breve e spietata guerra civile.

Nonostante le differenze, l’onda d’urto generata da questi tre omicidi ci racconta di una società che vive a cavallo tra due epoche: il tempo della brutalità, dove gli omicidi (prima di tutto quelli compiuti dagli israeliani) sono diventati una sconcertante abitudine, e il tempo della ricostruzione, dove la gente lotta per riacquistare la fede nella dignità della vita umana. La coraggiosa presenza di Arrigoni a Gaza e la sua commovente leal­tà verso il popolo palestinese (insieme all’impegno di altri attivisti stranieri) ha un ruolo fondamentale in questo processo di rinascita.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it