20 ottobre 2011 00:00

In occasione del mio primo giorno a Montréal, più di un mese fa, sono stata portata in giro da S, il giovane attivista che mi ospitava. Visitando uno storico quartiere della classe operaia, ci siamo imbattuti in due edifici. “Sono una chiesa protestante e una chiesa cristiana”, mi ha spiegato S. Poi mi ha raccontato che la chiesa cristiana ha ospitato per anni un giovane algerino in modo che non fosse deportato.

Sono passati ormai cinquant’anni dalla cosiddetta “rivoluzione tranquilla”, che mise fine al dominio della chiesa cattolica nel Québec. S è nato vent’anni dopo la rivoluzione. Ma ancora oggi, anche per lui, cristiano è sinonimo di cattolico.

Più di 500 chilometri a nord di Montréal, nel territorio della tribù degli algonquin, ho incontrato una coppia di trentenni con un passato da alcolisti. I loro figli, avuti da matrimoni precedenti, sono stati affidati ai servizi sociali. Mi hanno raccontato che qualche anno fa sono diventati cristiani.

Sono rimasta stupita e ho chiesto se non avessero anche loro, come la maggior parte degli indigeni del Québec, frequentato le scuole cattoliche. Certo, mi hanno risposto. Di recente, grazie alla guida di un predicatore evangelico, hanno chiuso per sempre con l’alcolismo e con la vita priva di senso che conducevano prima. C’è da capirli: i cattolici sono quelli che a scuola abusavano di loro, anche sessualmente; sono quelli che si sono presi le loro terre e li hanno assimilati con la forza. E così loro, che prima erano cattolici, ora sono cristiani.

*Traduzione di Andrea Sparacino.

Internazionale, numero 920, 21 ottobre 2011*

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