15 marzo 2012 00:00

Nel primo pomeriggio il piccolo forno di Umm Elias, nel centro di El Bireh, è affollato soprattutto da ragazzi che tornano da scuola e da studenti universitari. Umm Elias, 65 anni, li conosce tutti, uno per uno. I ragazzi scherzano mentre lei riscalda i pasticcini e si informa sulle loro famiglie e sugli esami.

Quando lunedì il piccolo forno si è svuotato, Umm Elias ha sospirato. Ero passata da lei per avere notizie di suo figlio. È nato a Gerusalemme, si è trasferito negli Stati Uniti per studiare, si è sposato e ha ottenuto il permesso di soggiorno. Dopo aver divorziato è tornato in Palestina, e ha scoperto a un checkpoint che la sua cittadinanza era stata revocata. È stato arrestato in quanto “residente illegale”. Israele ha infatti stabilito che i palestinesi di Gerusalemme perdono la residenza se vivono all’estero per troppo tempo.

Grazie all’intervento di un avvocato (e forse anche a un mio articolo), due anni fa l’uomo è uscito dal carcere, ma non ha ancora ottenuto i documenti e la residenza. Sostanzialmente è agli arresti domiciliari in un quartiere di Gerusalemme. Se lo fermassero a un checkpoint potrebbe finire di nuovo in galera. È un interprete, e per lavorare ha bisogno di muoversi. Dunque è disoccupato. Non ha soldi per pagare l’affitto e non può permettersi internet. “È molto depresso e non vuole vedere nessuno”, mi spiega con le lacrime agli occhi Umm Elias. Lei lavora più di dieci ore al giorno, e la notte non riesce a dormire. Casa amara casa.

*Traduzione di Andrea Sparacino.

Internazionale, numero 940, 16 marzo 2012*

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