14 giugno 2012 00:00

Quando sono scesa dalla macchina il mio cuore ha cominciato a battere forte. Sapevo di essere indesiderata e, da pessima attrice quale sono, sapevo anche che non sarei stata brava a mentire se mi avessero chiesto chi ero e cosa ci facevo lì. Com’era prevedibile, la guardia ha capito subito che ero una straniera. Ho borbottato il nome di una giovane impiegata universitaria che conosco. È andata bene e sono riuscita a entrare nel campus dell’università di Bir Zeit, dove si svolgeva una “grande manifestazione” contro la decisione di non punire un professore che aveva appeso alla sua porta delle vignette satiriche sull’islam.

Ho cominciato a vagare tra gli studenti. Alcuni indossavano una maglietta con la scritta “No alla diffamazione dell’islam in nome della libertà”. Altri si sono fermati per dare un’occhiata e poi hanno continuato per la loro strada. Altri ancora non li hanno degnati di uno sguardo. A un certo punto si è unito ai manifestanti un gruppo di donne con il velo. In tutto saranno state ottanta persone, compresi tre bambini. Poi hanno cominciato a marciare. Gli uomini davanti, le donne dietro, a distanza. I manifestanti scandivano slogan per chiedere le dimissioni del professore. Erano furiosi con il rettore, che non aveva esaudito le loro richieste. Quando si sono diretti verso il suo ufficio me ne sono andata, chiedendomi se quella di non scontrarsi con i manifestanti fosse stata solo una decisione prudente o un ordine dall’alto.

*Traduzione di Andrea Sparacino.

Internazionale, numero 953, 15 giugno 2012*

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