17 febbraio 2014 09:00

“Parlo con la stampa?”, mi ha chiesto in arabo. Nella voce all’altro capo del telefono c’era qualcosa che mi ha suggerito di evitare battute come “la stampa è morta” o “la stampa sta dormendo”. Senza saperlo, sentivo che stavo parlando con una persona disperata che aveva avuto il mio numero da qualcuno che avevo aiutato o ascoltato in passato.

L’uomo al telefono non conosceva il mio nome. Mi ha detto il suo e ha cominciato a raccontarmi la sua storia: 41 anni, originario di un villaggio a sud di Hebron, non è mai stato arrestato. Eppure da 13 anni le autorità israeliane gli negano un permesso di lavoro in Israele. “Ma io sono solo una giornalista”, gli ho spiegato. Solo lo Shin Bet può decidere sui permessi di lavoro. Mi ha detto di aver avuto l’impressione (sbagliata) che la stampa israeliana avesse il potere di cambiare le cose. “Forse dovresti parlare con un’attivista”, gli ho consigliato, facendogli il nome di Sylvia. “Sì, l’ho già contattata”, mi ha risposto. “È molto gentile, ma ho pensato che forse anche tu potevi aiutarmi”.

Sylvia è una delle “nonne”, le volontarie infaticabili del gruppo MachsomWatch, ed è anche un’economista in pensione. La sua specialità è dare il tormento alle autorità militari finché non rispettano il diritto al lavoro. Da qualche tempo Sylvia collabora con un avvocato che si dà molto da fare e chiede una parcella minima.

Sylvia mi ha promesso di occuparsi della vicenda. Io invece sto pensando di scrivere un articolo su quell’uomo. “Ce ne sono molti come lui”, mi ha spiegato Sylvia. Quarantenni che lottano per avere un lavoro in Israele e quindi uno stipendio più alto rispetto a quello offerto dai datori di lavoro palestinesi. Poi Sylvia mi ha chiesto di scrivere un articolo su un altro uomo che lo Shin Bet sta cercando di reclutare come informatore (altra storia comune) in cambio di un permesso per lavorare come operaio edile in un insediamento coloniale.

Traduzione di Andrea Sparacino

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