27 novembre 2017 17:43

Alessandro Leogrande era arrivato tardi a Ferrara, all’incontro in cui avremmo dovuto parlare di razzismo e mezzi d’informazione. L’aspettavo nervosamente nascosta dietro al mio computer, preoccupata che si fosse dimenticato dell’appuntamento. Poi con sollievo avevo visto spuntare i suoi ricci neri dietro alle persone in piedi sul fondo della sala del circolo Arci Bolognesi. “Tutta questa gente è venuta ad ascoltare noi?”, mi aveva chiesto trafelato. “Sono venuti ad ascoltare te”, avevo risposto, mentre lui si era seduto rapidamente dietro a una specie di cattedra.

L’avevo presentato come l’autore di La frontiera e Il naufragio e lui mi aveva ripreso ricordando anche il suo Uomini e caporali, il libro a cui forse teneva di più, che aveva documentato il caporalato nei campi di pomodori in Puglia, la sua regione, ma anche la speranza per la nascita di un nuovo sindacalismo. Lo avevo incalzato con molte domande: tutta l’estate avevo provato angoscia, riflettendo sul ruolo dei mezzi d’informazione e sulle loro responsabilità nell’ondata di razzismo e odio montante nel paese.

“Non ti sembra che i mezzi d’informazione abbiano abdicato al loro ruolo rispetto alla politica e all’opinione pubblica? Non dovremmo essere noi giornalisti a rompere il circolo vizioso delle false notizie diffuse dai politici che cercano consenso attraverso la paura?”. Lui mi aveva guardato con quella dolcezza timida e mi aveva accusato di avere una visione “troppo anglosassone” del ruolo della stampa. Poi con una voce elegante e un linguaggio forbito, che lo faceva somigliare a un colto conduttore radiofonico, aveva cominciato a prendere in mano tutte le questioni che gli ponevo per trasformarle in una lezione sul mestiere e in generale sul ruolo degli intellettuali nella società.

Non si tratta solo di usare con più attenzione le parole, ma di ritornare alla politica, ripoliticizzare le parole

“Ti invito a pensare più gramscianamente che i mezzi d’informazione sono terreno di scontro di forze politiche e gruppi di potere e non si tratta solo di usare con più attenzione le parole, ma di tornare alla politica, ripoliticizzare le parole”. Aveva preso in giro i corsi che siamo obbligati a frequentare dall’ordine dei giornalisti e che ci insegnano a rispettare il codice deontologico e la carta di Roma sui migranti. “Ci dovremmo rifiutare di frequentarli, almeno fino a quando non sarà sanzionato un quotidiano che mette in prima pagina la notizia che i migranti portano le malattie”, aveva detto con fermezza.

Senza parole
È vero, aveva spiegato, si è consumato un processo di deumanizzazione dei migranti e di tutti i cittadini di origine straniera nel nostro paese e questa deumanizzazione è servita a giustificare politiche di respingimento e accordi disumani con la Libia. Niente di nuovo, aveva detto Leogrande, che da giovanissimo aveva raccontato l’arrivo di migliaia di albanesi sulle coste pugliesi e aveva documentato la condotta della marina militare italiana che speronava le imbarcazioni di immigrati. La deumanizzazione è stata preparata dalla criminalizzazione di queste persone, sempre più spesso associate al terrorismo e a ogni altra specie di reato, ma anche dalla loro vittimizzazione: “È l’idea che i migranti siano una massa informe, numeri, corpi che hanno bisogno di essere sfamati, assistiti, aiutati. Invece di essere persone con dei desideri, una volontà, dei progetti”.

Tutto il lessico che usiamo sull’immigrazione lo mutuiamo dal mondo cattolico dell’assistenza e questo per certi versi è un limite: “Le organizzazioni cattoliche hanno avuto per anni il monopolio dell’accoglienza e dell’assistenza ai migranti. Per questo a volte ci mancano anche le parole, il lessico per parlare d’immigrazione restituendo ai migranti la loro soggettività”. Sui paesi di provenienza avevamo poi cominciato una lunga conversazione: durante lo sgombero di piazza Indipendenza, a Roma, nessuno sapeva niente dell’Eritrea, il paese di provenienza dei rifugiati che abitavano a via Curtatone e lo stesso discorso varrebbe per la Libia o per la Somalia.

“È gravissima la nostra ignoranza dei paesi di origine dei migranti, ma tanto più pesante la nostra ignoranza delle vicende che riguardano le nostre ex colonie. Abbiamo un problema di colonialismo rimosso”, aveva detto, invitando tutti a fare un lavoro di lettura degli studi sull’Italia coloniale: Del Boca, Triulzi, Calchi Novati, Scego. Nel suo libro La frontiera aveva provato proprio a riportare alla luce il passato coloniale italiano, raccontando il naufragio del 3 ottobre 2013 nel quale erano morte 368 persone, quasi tutte di origine eritrea. “Si è acceso qualcosa dentro di me quando ho scoperto che alcuni dei campi di concentramento aperti negli ultimi anni da Isaias Afewerki per reprimere gli oppositori sorgono negli stessi luoghi dove erano disposti i vecchi campi di concentramento del colonialismo italiano”, aveva detto.

Infine aveva dato una risposta molto liberatoria alla mia domanda sui limiti culturali della sinistra nell’interpretazione e nella gestione del fenomeno migratorio: avevo chiesto perché i sindacati italiani avessero fatto così fatica a sottoscrivere la campagna Ero straniero per la riforma del Testo unico sull’immigrazione, la cosiddetta legge Bossi-Fini.

“Il tema del lavoro è centrale”, aveva detto lui che era iscritto al sindacato degli scrittori della Cgil. Per Leogrande la sinistra italiana, che ha forti radici nel sindacalismo, interpreta troppo spesso i lavoratori di origine straniera in competizione con quelli italiani, cedendo al paradigma usurato della guerra tra poveri. Come dimostrano numerosi rapporti (Caritas migrantes e Fondazione Moressa), infatti, nel caso dei lavori più qualificati non si registra una vera competizione e i lavoratori di origine straniera finiscono per svolgere mestieri più umili rispetto alla loro preparazione. Nei lavori più in basso nella scala sociale – come per esempio nella logistica o nell’agricoltura – esiste di fatto una competizione che viene sfruttata dai datori di lavoro. “Ma in questo caso non c’è altro da fare che tornare alla lezione di Giuseppe Di Vittorio”, aveva spiegato Leogrande facendo riferimento a uno dei padri del sindacalismo italiano.

“Fare sindacato di base, costruire vertenze comuni come sta già succedendo in diversi settori”, aveva detto. Per Leogrande anche nei mezzi d’informazione l’unico modo per uscire da certi circoli viziosi è tornare a raccontare la complessità e la ricchezza delle storie personali, non stancarsi di fare giornalismo narrativo, non accontentarsi di numeri e statistiche e infine non cedere a una certa retorica “terribilista” e retrograda che racconta il paese più arretrato di come in realtà non sia. “Il nostro paese è molto più avanzato e complesso di come lo raccontiamo noi giornalisti”, aveva detto, regalandomi una specie di conforto.

Quando il giorno dopo lo avevo incontrato sul treno per Roma avevamo scherzato sul fatto che avremmo dovuto registrare quella conversazione che a me sembrava tanto una lezione, ma anche un indirizzo di ricerca, un invito per tutti a volare più in alto. Si rammaricava del fatto che non riusciva più a scrivere sui giornali, ma solo nei libri. Gli avevo detto che avrebbe dovuto insegnare nelle scuole. È dei maestri, infatti, la capacità di trasformare i dubbi degli allievi in un programma di studio, in un orizzonte di lavoro, alzare il livello della riflessione, aprire scenari inaspettati e per certi versi risolutori. E di questo era capace Alessandro Leogrande con la grazia della sua scrittura e della sua parola, ma anche con la ricchezza della sua cultura e la luce della sua intelligenza.

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