Autoritratto è un libro fondamentale, da poco tornato in libreria, scritto dalla critica d’arte e femminista italiana Carla Lonzi nel 1969. È un dialogo con alcuni dei più importanti artisti dell’epoca, tra cui Carla Accardi e Pietro Consagra. A quel libro, che ha rivoluzionato la critica dell’arte attraverso la pratica dell’ascolto e dell’autocoscienza, si è ispirato il drammaturgo e attore siciliano Davide Enia, che ha presentato al festival dei Due mondi di Spoleto il suo ultimo spettacolo.
A partire dai suoi ricordi d’infanzia Enia prova a capire di cosa è fatta la sua città, Palermo, e cosa ha reso possibile che fosse dominata da cosa nostra, ma nel farlo decostruisce se stesso, la propria educazione, il familismo amorale che è la base culturale di quell’organizzazione e infine individua nel silenzio il segno impresso nella mente e nel corpo di ogni uomo, di ogni ragazzo, una specie di marchio del sistema di dominio che lo stesso Enia definisce “patriarcato”.
“Ho imparato da Carla Lonzi che ogni parola che dirà il critico dell’opera è il ritratto del critico stesso. Quindi è meglio che parli l’autore della sua opera. E poi ho incontrato questo racconto brevissimo di Borges in cui c’è un pittore che vuole dipingere tutto il creato e inizia a dipingere ogni baia, ogni spiraglio, ogni insenatura, ogni tramonto sul mare, ogni chiesa, ogni volto, ogni animale che corre, ogni festa di piazza, finché alla fine il pittore capisce che tutto quel labirinto di linee e vuoti sono il suo autoritratto”, spiega Enia, poco prima di mettere in scena lo spettacolo prodotto dal Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia, dal Piccolo teatro di Milano, Accademia perduta Romagna teatro, Spoleto Festival dei due mondi con il patrocinio della Fondazione Falcone, che sarà in tour da dicembre del 2024.
“Il primo morto ammazzato lo vedo a otto anni, tornando a casa da scuola”, dice Enia, da solo sulla scena come nei suoi precedenti spettacoli, accompagnato da un musicista che rimane sullo sfondo. La ricerca di Enia è innanzitutto rivolta verso la sua città, considerata il paesaggio urbano e simbolico che lo ha formato come persona.
“A Palermo il grado di separazione tra me e tutti i nomi celebri di cui racconto è veramente minimo. Cioè tutti sanno dove abitavano Giovanni Falcone o Paolo Borsellino, tutti sapevano che i due giudici sarebbero stati ammazzati. C’è chi ha avuto compagni che sono finiti in carcere, chi è andato a scuola con persone affiliate alla mafia. È quel grande impasto proprio delle città del sud. Il mio professore di religione al liceo è stato don Pino Puglisi, lo è stato di migliaia di ragazzi e ragazze”, racconta Enia.
Nel suo monologo lo scrittore confessa di avere visto e capito Palermo per la prima volta a 17 anni, dopo essere andato in viaggio studio a Londra. Proprio come gli aveva anticipato un amico, solo andando all’estero ha capito che la sua città aveva delle caratteristiche fuori dal comune e che quello che aveva sempre considerato normale, in realtà non lo era.
“Nelle altre città del mondo non ci sono i resti dei bombardamenti della seconda guerra mondiale ancora così visibili, nelle altre città i palazzi bombardati sono stati ricostruiti. Andando all’estero ho capito che non era normale che intere parti della città non avessero l’illuminazione di notte o che non è normale trovarsi dei cadaveri per strada quando torni da scuola, non è normale trovarsi in mezzo a una sparatoria. Ma tutte quelle anomalie per noi invece erano il quotidiano, perché ci siamo cresciuti dentro e quindi non le valutavamo come fatti anormali, eravamo convinti che il mondo fosse tutto come Palermo”, racconta. “La mafia non solo l’abbiamo tollerata, ma l’abbiamo perfino banalizzata, sottostimata, rimossa, mitizzata, cioè non l’abbiamo mai affrontata per quello che è, perché a volte, in maniera dolorosa, risulta essere uno specchio di dinamiche che, per esempio, hai nella tua stessa famiglia”, continua.
Sopravvivere a Palermo
Enia confessa che per sopravvivere a quella città nel corso del tempo si è dato delle regole, ma che la sua educazione è stata un lento addestramento al silenzio, che è il destino che la famiglia patriarcale riserva ai ragazzi maschi.
“Sarà che appartengo già a questo ambito culturale in cui ci genuflettiamo alla dottrina del silenzio ed è meglio stare zitto e non dire niente, sto muto”, dice durante lo spettacolo mentre racconta l’esilarante episodio con cui è cominciata la sua amicizia con Peppe Malato, il suo migliore amico di scuola. Già nel suo libro Così in terra (Sellerio 2012) c’era un nonno che aveva avvolto la violenza della guerra in un impenetrabile mutismo, mentre in Appunti per un naufragio (Sellerio 2017) un padre non riusciva a parlare. Il silenzio come segno della violenza e del potere sul corpo delle persone è però messo al centro di Autoritratto.
È don Pino Puglisi, il professore di religione di Enia, a mettere in discussione questo atteggiamento. “Era un uomo mite” ed Enia ricorda la prima volta che gli ha letto un tema. “Bisogna nominare le cose”, dirà Puglisi, che qualche anno dopo, nel 1993, sarà ucciso da cosa nostra. Tra il cunto palermitano e il teatro civile, Enia ripercorre tutte le evoluzioni dell’organizzazione criminale che ha dominato la città e le vite delle persone che ci abitano fino agli omicidi celebri di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
“Le tecniche sono quelle del cunto palermitano, il canto, l’abbanniata, che è la tecnica di vendita che si usa al mercato di Ballarò. Ho cercato di recuperare i suoni che c’erano in quegli anni e ho ripreso e riscritto alcuni canti popolari, come il Miserere di Giovanna Marini, la musicista da poco morta che è la mia ‘Maradona’”, racconta Enia, secondo cui il teatro è la possibilità di riflettere su una crisi con una prospettiva personale e insieme collettiva.
“Il teatro, partendo dalla descrizione di un profilo biografico, intimo, invita ogni singolo spettatore a fare un passo in più, che idealmente sarebbe sedere sul palcoscenico per riflettere sulla propria esistenza. Chi c’era in quei giorni indubbiamente si ricorderà dov’era quando sono morti Giovanni Falcone o Paolo Borsellino, e come viveva in quegli anni”. Non si va da nessuna parte, se non si comprende da cosa siamo prodotti. “Bisogna capire che quando nella tua città ti trovi davanti a una pozza di sangue, l’immagine riflessa è il tuo autoritratto”, conclude.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it