22 giugno 2015 14:32

“Alla manutenzione, l’Italia preferisce l’inaugurazione”.

A scrivere questo aforisma, nel 1957, è Leo Longanesi, un indiscusso maestro del genere (e uno che, di sé, afferma: “Sono un conservatore in un paese come l’Italia in cui non c’è niente da conservare”). Proprio della negletta ma fondamentale pratica della manutenzione, e del fatto che, invece, in Italia e nella vita di ciascuno di noi forse qualcosina da conservare ci sarebbe, vi parla questo articolo.

Dovrebbe essere chiaro e ovvio che qualsiasi cosa, materiale o immateriale (dalle città agli affetti, dalle biciclette alle idee, alle competenze e alle parole) ha bisogno di manutenzione. Se no, con il passare del tempo si logora, si deteriora e va a rotoli.

Eppure, in tempi di obsolescenza programmata e di nuovismo a tutti i costi, l’idea stessa della manutenzione sembra noiosa, faticosa, antiquata e magari potenzialmente reazionaria. Del resto, perfino il successo politico personale del nostro presidente del consiglio è stato costruito a partire da una singola, definitiva parola d’ordine: rottamazione!

Il fatto che il medesimo successo si stia rapidamente deteriorando proprio per assenza di manutenzione (delle idee, dei territori, delle relazioni…) non sembra però così importante da meritare di essere rilevato.

Anche se i due termini hanno la stessa origine, oggi la lingua italiana assegna sfumature di significato diverse a mantenimento e a manutenzione

Anche se i due termini hanno la stessa origine (entrambi derivano dal tardo latino manu tenēre, tenere in mano), oggi la lingua italiana assegna sfumature di significato diverse a mantenimento (conservare e far durare, oppure sostenere, oppure tener fede) e a manutenzione (conservare in buono stato, prendersi cura, riparare).

L’inglese invece non distingue e usa maintenance in entrambi i casi. C’è da chiedersi se questo derivi dal fatto che l’italiano sa operare distinzioni più sottili, o dal fatto che a un anglosassone le due attività, quella del conservare e quella del riparare e prendersi cura, appaiano, se non coincidenti, inscindibili come in effetti sono, e come il puro buonsenso dovrebbe ricordarci.

L’effetto dotazione e l’avversione alle perdite sono due dei concetti più interessanti tra quelli diffusi dall’economia comportamentale, la recente (i primi studi risalgono agli anni cinquanta del secolo scorso) branca dell’economia che indaga i modi bizzarri in cui ragioniamo in condizioni di incertezza, e le conseguenti e non proprio razionali scelte economiche che compiamo in materia di costi e benefici.

L’effetto dotazione (endowment effect) riguarda il fatto che tendiamo a sovrastimare il valore di quanto abbiamo, tanto da portarci a chiedere, per vendere un bene che possediamo, più soldi di quanti saremmo disposti a spendere per comprare quel medesimo bene. E non sono solo gli adulti a ragionare così. Lo fanno anche i bambini, e perfino i gorilla e gli scimpanzé.

L’avversione alle perdite (loss aversion) è il motivo per cui scatta l’effetto dotazione. Riguarda il fatto che perdere qualcosa che possediamo ci procura molto più dolore di quanto piacere ci procuri il guadagnarci quel medesimo qualcosa, se ancora non è nostro: dunque, sopravvalutiamo ciò che possediamo proprio perché perderlo ci addolorerebbe molto.

Tutto ciò dovrebbe trasformarci in maniaci della manutenzione: il dolore che proveremmo se per nostra incuria qualcosa che abbiamo andasse perduto dovrebbe essere un incentivo più che sufficiente a evitare quel rischio. Eppure non succede così.

Riesco a immaginare, per questo curioso fenomeno, diverse spiegazioni: da una parte, l’effetto dotazione forse funziona di più per le cose a cui facilmente riusciamo ad attribuire un preciso valore monetario, e per le cose che possediamo individualmente e possiamo vendere o comprare.

L’attività della manutenzione è ancillare, umile e oscura, non prevede un solo momento di gloria e non finisce mai

Ma quanto può valere un’amicizia? Un’idea? Un amore?

Pensate, per esempio, a quanto devastante può essere la fine di un amore, e a quanto poco si fa, di norma, per evitare che finisca. E perfino a quanto poco ci si interroga su quel che ci sarebbe da fare, per mantenerlo, se non intatto, in decenti condizioni.

E poi: a chi appartiene davvero una città? Un paesaggio? Un monumento? La scuola e l’intero sistema dell’istruzione? La lingua italiana? L’aria che respiriamo? Pensate a quanto aggiustare, ripulire, restaurare o riorganizzare può costarci anche come singoli cittadini, e anche in termini puramente economici. A quanto poco ciascuno investe per preservare, tenere in ordine, magari migliorare. E a quanto scarsi sono il controllo e lo stigma sociale nei confronti di chi danneggia o non si cura.

C’è un secondo elemento da considerare: il costo psicologico della manutenzione è altissimo. Ci vogliono attenzione ininterrotta e dedizione. E l’attività stessa della manutenzione è ancillare, umile e oscura, non prevede un solo momento di gloria e non finisce mai.

Forse, e per incentivare la pratica della manutenzione, potremmo ispirarci a Longanesi e inventarci, ogni tanto, una nuova inaugurazione per celebrare, insieme a noi stessi, ciò che non si è rotto, danneggiato o consumato grazie al semplice fatto che ce ne siamo occupati in maniera diligente. O ciò che è tornato a essere nostro perché, finalmente, ci siamo decisi a rimetterlo in sesto.

Sia quel qualcosa un’amicizia, un amore, un paesaggio, un’idea, una parola, una città. E qualsiasi altro elemento materiale o immateriale ci venga in mente che ha un valore, e la cui perdita o la cui rovina ci addolorerebbe lasciandoci più poveri.

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