Domenica in un quartiere di Tunisi e nella città di Qayrawan, dichiarata patrimonio dell’umanità dall’Unesco e considerata la quarta città santa dell’islam, centinaia di jihadisti del movimento Ansar al Sharia si sono scontrati a lungo con le forze di polizia. I manifestanti, determinati e violenti, hanno incendiato alcune auto e sventolato la bandiera nera di Al Qaeda, a cui si richiamano apertamente. In un certo senso la notizia è sia inquietante sia rassicurante.
L’aspetto preoccupante, per la Tunisia e i paesi vicini, è che il movimento è legato ai campi di addestramento jihadisti che si trovano sui massicci montuosi nell’ovest del paese, vicino alla frontiera algerina.
Allo stesso tempo, però, emergono due fatti che lasciano ben sperare. Il primo è che Ansar al Sharia conta non più di ventimila militanti (contro i 40mila dichiarati), un numero insufficiente per sfidare apertamente il potere tunisino. Dopo aver più volte confermato il congresso, in programma domenica a Qayrawan nonostante il divieto del ministro dell’interno, i leader del movimento hanno fatto marcia indietro davanti all’imponente spiegamento di forze di polizia, e all’ultimo minuto hanno richiamato i delegati. Inoltre le proteste seguite all’annullamento del congresso, per quanto violente (con un bilancio di un morto e numerosi feriti), sono state limitate dal punto di vista geografico e come numero di partecipanti.
Il secondo elemento rassicurante è che Ennahda, il partito islamico tunisino che guida la coalizione al potere dall’autunno del 2011, sta ormai prendendo le distanze dal movimento jihadista. Per molto tempo il partito ha mantenuto un atteggiamento titubante nei confronti delle correnti radicali, nel timore che la repressione avrebbe potuto aumentarne l’infulenza. Tra l’altro il leader di Ennahda, Rached Ghannouchi, rivede nei jihadisti le sue esperienze giovanili, e ha mostrato per loro un’accondiscendenza tale da spingere i partiti laici a parlare di connivenza tra il partito islamico e i jihadisti .
L’attentato contro l’ambasciata americana a Tunisi del settembre scorso (che ha provocato la morte di quattro persone) e l’assassinio dell’oppositore di sinistra Chokri Belaïd a febbraio hanno però convinto l’ala più moderata di Ennahda a imporsi e a isolare Ansar al Sharia nelle moschee, controllandone da vicino l’attività. A questo punto la rottura tra Ennahda e i jihadisti sembra consumata, anche perché il partito non intende correre il rischio di essere sopraffatto in un momento caratterizzato da forti tensioni sociali. Inoltre teme di spaventare il suo elettorato composto essenzialmente da piccolo borghesi tradizionalisti che non hanno alcuna simpatia per il jihad.
In una situazione così esplosiva, è confortante notare che la vittoria elettorale del partito islamico non sta in alcun modo creando un regime teocratico simile a quello iraniano. Alla prova del potere, Ennahda vuole prima di tutto vincere le prossime elezioni, tranquillizzare gli investitori e allontanarsi il più possibile dai jihadisti, ormai diventati i suoi principali avversari.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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