05 maggio 2015 11:37

È difficile immaginare il buco nero della burocrazia scolastica italiana finché uno non ci si trova in mezzo. Altrettanto difficile è immaginare che la riforma renziana possa riuscire a fare ordine in questo ginepraio.

Appartengo a una categoria di persone (circa 17mila) che in questi mesi affrontano il tirocinio formativo attivo (Tfa). Si tratta di un corso istituito nel 2011, organizzato dalle università, che dovrebbe servire a regolare il reclutamento degli insegnanti distribuendo ogni anno un numero prefissato di abilitazioni.

Prima di questo c’era una cosa simile che si chiamava scuola di specializzazione all’insegnamento secondario (Ssis), prima della Ssis esistevano solo le graduatorie dove potevano iscriversi tutti i laureati: si mettevano in lista e accumulavano supplenze (che davano punti), finché a furia di supplenze risalivano la graduatoria ed entravano in ruolo. Prima ancora, e ogni tanto anche dopo, c’era un cosiddetto “concorsone”: se lo vincevi diventavi subito professore di ruolo. In teoria: di fatto le cose erano e sono diverse, molto più complicate. Ora la nuova riforma vorrebbe tornare al più semplice sistema dei concorsi a cattedra, ma il modo in cui sta gestendo la transizione sembra creare più problemi di quanti ne risolva.

Quando ho deciso di iscrivermi al Tfa, avevo già insegnato come supplente e come tanti miei simili non conoscevo granché del nostro destino una volta ottenuta l’abilitazione, anche se pareva scontato che avrebbe offerto una qualche forma di accesso all’insegnamento di ruolo.

Bene. Per entrare nel Tfa bisognava superare tre esami. Nel caso della mia classe di concorso tre esami che presupponevano una conoscenza abbastanza dettagliata della storia e della filosofia dall’antichità ai giorni nostri.

Statue di pietra

Siamo a maggio del 2014 e la data d’inizio di questi esami resta per mesi avvolta nel mistero, gli enti istituzionali e le università sono statue di pietra: muti fino all’ultimo, salvo poi imporci tempi di espletamento degli obblighi amministrativi assurdamente stretti. Il primo esame è composto da domande chiuse abbastanza difficili (“Di cosa si occupa Peter Singer”, che non è certo un filosofo famosissimo, o “Chi ha scritto La filosofia e lo specchio della natura”: Richard Rorty era la risposta).

Nella mia sede e per la mia materia partecipano un po’ meno di duecento persone, l’età media è di 33 anni. Il test iniziale è stabilito al livello ministeriale, quindi uguale per tutti. Da lì in poi invece il ministero ha lasciato non si sa perché carta bianca alle università, che di conseguenza fanno come vogliono.

Così il secondo esame si svolge secondo modalità diverse da sede a sede. Se hai fortuna la tua università avrà scelto una modalità di esame più blanda. Salta l’uguaglianza delle condizioni di partenza.

I candidati usciti dalla selezione che ho affrontato sarebbero oggi degli insegnanti più preparati di molti di quelli attualmente operativi

Nel mio caso il secondo esame consiste in tre domande aperte di storia e tre di filosofia. Passato anche il secondo turno, resta il terzo (per ogni turno si ripete la stessa sadica gestione del tempo e della comunicazione da parte dell’università). Tutto di nuovo a discrezione del singolo ateneo. Un esame orale. In certe università richiedono una specie di lezione scolastica, dove lo faccio io invece è di nuovo nozionismo: si estraggono a sorte domande da una busta. Se esce “rivoluzione industriale” il professore di storia s’intratterrà con voi sui dettagli del passaggio dal carbone al carbon coke, se esce “il nazismo” sul rapporto tra Hitler e le popolazioni slave. Insomma, difficile.

Dalla mia classe di concorso ne escono 13, e vista la difficoltà della selezione si tratta di 13 bravissimi (io ce la faccio grazie ai titoli, un dottorato, qualche pubblicazione, altrimenti dubito sarei stato tra i vincitori). Senza entrare nel merito di quanto conti la preparazione sui contenuti rispetto ad altre qualità necessarie all’insegnamento (questione tutt’altro che trascurabile), credo di poter affermare che, rispetto alle “competenze disciplinari”, i candidati usciti dalla selezione che ho affrontato sarebbero oggi degli insegnanti più preparati di moltissimi di quelli attualmente operativi.

Peccato che questo valga solo per la mia esperienza, e che in altre università, da quel che mi raccontano, si sia copiato molto durante il test iniziale davanti agli sguardi assonnati della commissione interna. Così, a occhio e croce, per le altre classi di concorso: magari la selezione è stata molto più facile e casuale, e sono passate persone con qualsiasi tipo di preparazione.

Non è finita. Chi ha vinto paga tra i duemila e i tremila euro, a seconda delle università. Nel mio caso, 2.500. Occorre trovarli. Non li hai? Avanti il prossimo. Se saranno arrivati fin lì per fortuna o per merito sarà molto difficile dirlo, ma di sicuro questi ipotetici futuri insegnanti saranno tali, forse un giorno, perché avranno avuto i soldi per farlo. La classe insegnante a venire, come quella degli ultimi dieci anni (anche per la Ssis si richiedevano cifre simili), nasce da una selezione per censo: i più poveri non insegnano.

Ma per cosa si paga, esattamente? Cosa dovremmo fare? Nessuno sa. La riforma è in divenire. Inutile farsi troppe domande. Anche perché nel frattempo ce ne sono di più urgenti: quando comincerà il Tfa? Con quali modalità? Si tratterà di un impegno a tempo pieno? Devo lasciare il lavoro? Chiedere un’aspettativa? Di quanti mesi? Devo trasferirmi a Roma/Milano/Palermo?

La selezione si conclude con tempi ineguali. A Roma e per la mia classe di concorso in momenti diversi tra ottobre e dicembre, a seconda delle università. Poi di nuovo tutti appesi a decisioni e indicazioni che arriveranno chissà quando e chissà come. Spiare i siti di riferimento, telefonare a segreterie dove non risponde nessuno, scambiarsi messaggi con amici o conoscenti nelle stessa situazione. Tutto un esercito di insegnanti o aspiranti tali in attesa di sapere di che morte morire. Poi come al solito, all’improvviso, si comincia dopodomani. Vite che si riorganizzano all’istante costruendosi intorno a pochi brandelli di informazione, le mani avanti, lo sguardo circolare, patti multilaterali con famiglie, principali, eccetera per tenersi aperta la porta, per non scomparire.

Arrivano via email liste di impegni. Corsi pomeridiani, di vario tipo. Vedremo. Intanto tenetevi liberi. E la mattina? La mattina il tirocinio a scuola. Come funziona? Non si sa. Discussioni interminabili sui gruppi facebook e whatsapp dei tirocinanti a interpretare indicazioni grammaticalmente e logicamente incongrue, a operare distinzioni casuistiche su un insieme di regole apparentemente incomprensibili, o inattuabili. Quante ore di tirocinio dobbiamo fare a scuola? Non si capisce: all’inizio sembrano 470 (un’infinità), poi 100, poi 190. Il Tfa doveva cominciare a novembre, invece tra un ritardo e l’altro siamo finiti a gennaio-febbraio. Doveva durare un anno, durerà molto meno (basteranno quelle ore ridotte di formazione per imparare a insegnare? Nessuno sembra domandarselo).

Persone umiliate, passive, iperburocratizzate, logorate da anni di precariato. Queste potrebbero essere le persone che si prenderanno cura dei vostri figli

È particolarmente agghiacciante la totale anomia a cui è abbandonata la gestione dei tirocini: il ministero non dice niente, certe università vanno avanti organizzandosi come possono con i singoli istituti scolastici, altre più fiscali aspettano di fare le cose come si deve e si perde altro tempo. Se il monte totale di ore previste doveva essere diluito in un anno scolastico, ormai è impossibile, quindi: fatene meno, barate, le altre fate finta di averle fatte. Queste le direttive strappate alle segreterie, comunicate a mezza voce da impiegati che si rendono benissimo conto dell’irritualità, per usare un eufemismo, di tutto ciò. Poi nuove smentite: non si deve barare, è tutto regolare. Tranquilli.

A ogni modo si comincia ad andare a scuola: alcuni a fine gennaio, altri solo poche settimane fa. A quelli che cominciano dopo, l’università accorda uno sconto di ore, altrimenti è impossibile, dicono. Pazienza per quelli che avranno fatto molte ore in più. Peggio per loro, o meglio per loro.

Le lezioni pomeridiane: in gran parte le tengono professori universitari che non hanno nessuna esperienza di insegnamento scolastico. Fanno lezione sulla loro disciplina, parlano di quello che sanno: in pratica un ciclo di seminari di dottorato. Oppure lezioni di pedagogia con una grande esemplificazione teorica, e pochissimi esempi concreti utili per chi ha già esperienza di scuola.

C’è stato detto che presto entreranno in gioco anche altre figure di insegnanti scolastici, non universitari: ulteriori “tutor” che questa volta potranno insegnarci davvero cose utili e interessanti forti della loro lunga esperienza sul campo. Ci avviciniamo alla fine del corso e di questi tutor-docenti ancora non c’è traccia.

Per quanto riguarda invece gli insegnanti con cui lavoriamo la mattina a scuola, si tratta di persone che non hanno ricevuto nessun tipo di indicazione su come gestire il loro tutoraggio, di conseguenza anche qui tutto è abbandonato al caso e alla discrezione dei singoli; molti lo interpretano come una buona occasione per delegare lavoro ai tirocinanti.

Una nebbia di ipotesi

Un mese fa il ministero ha diramato la notizia che potranno entrare nel Tfa anche tutti coloro che pur essendo arrivati con successo alla fine dei tre esami di selezione (quindi definiti “idonei”) non erano rientrati grazie al loro punteggio nel numero di posti messi a disposizione.

Qualche migliaio di uomini e donne che ormai disperavano di lavorare a scuola, che nel frattempo avevano ripreso la loro esistenza quotidiana e che adesso, quasi due mesi dopo, hanno la facoltà di versare i 2.500 euro nelle casse universitarie e “subentrare” in questa aurea élite di ipotetici futuri insegnanti. Ma tutte le lezioni che hanno perso? E le ore del tirocinio a scuola, come faranno? Devono ancora registrarsi, iscriversi, compilare moduli digitali, quando cominceranno? Si trova un rimedio a tutto. Basta chiudere un occhio, anche due. Suvvia, non ci formalizziamo (gruppi whatsapp in subbuglio, esplosive assemblee generali del Tfa, proteste).

Inoltre, pare ormai scontato che non rientreremo nel numero dei “graziati” da Renzi. Con il disegno di legge Buona scuola ci viene confermato una volta per tutte che le nostre abilitazioni serviranno solo a partecipare a un nuovo concorsone. Ovvero ad affrontare altri esami in tutto e per tutto simili a quelli che abbiamo già fatto, come in una specie di versione burocratico-valutativa del mito di Sisifo.

Intanto la Buona scuola promette molte assunzioni: s’è detto 150mila, poi centomila insegnanti, ora che è stata pubblicato il disegno di legge definitivo con la sua “nota tecnica” pare che il primo anno saranno solo la metà di questa cifra e i restanti l’anno dopo. Anche in questo caso nessuno sa che succederà.

I più idealisti sostengono (e sono la maggioranza) che si debba continuare a pretendere, fino all’ultimo ricorso possibile, l’inserimento nella prima fascia (come i Ssis) così da entrare nel piano di assunzioni di Renzi. I più cinici controbattono che l’ingresso nelle ultime posizioni della graduatoria ci riserverebbe realisticamente un futuro di disoccupazione, e che la strategia più utile sia quella di accettare l’esclusione e pretendere il nuovo concorso al più presto, subito. Vincerlo, entrare in ruolo: la battaglia del merito contro l’anzianità. E non date retta ai sindacati.

Ecco, questa del Tfa è solo una minuscola parte dei problemi formali e sostanziali che riguardano gli insegnanti precari oggi in Italia, dentro e fuori dei percorsi abilitativi. Tutto si agita in una nebbia di ipotesi e speranze contraddittorie. Tutto dipende da decisioni prese in luoghi e da persone inappellabili, che paiono troppo lontani dal vissuto degli insegnanti e dal disagio sociale incarnato in questo momento dall’istituzione scolastica. Tutto sembra in mano a una burocrazia disfunzionale, a una amministrazione sciatta e imperscrutabile.

Per chi vive sulla sua pelle questa situazione non resta che navigare a vista, sperare di cavarsela in qualche modo: l’unica etica adottabile sembrerebbe quella di mors tua vita mea. Fare i furbi, mantenere un profilo basso, infilarsi nel posto giusto al momento giusto. Partecipare a una class action come quelle di cui si parla in questi giorni porterà difficilmente a risultati concreti dal momento che quella dei professori è una classe sociale frammentata, composta da situazioni e interessi troppo diversi e conflittuali, determinati dai pasticci che le diverse riforme hanno prodotto nel corso degli anni.

Quel che è più probabile è che alla fine di questo annus horibilis arriveranno degli individui con un’immagine completamente degradata della cosa pubblica e della propria funzione, con una fiducia nelle istituzioni pari a zero. Persone umiliate, passive, iperburocratizzate, logorate da anni di precariato della peggior specie. Questo rischiamo di diventare noi insegnanti. Queste potrebbero essere (e in qualche misura già sono) le persone che si prenderanno cura dei vostri figli.

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