02 maggio 2018 13:05

Il massacro compiuto dalle forze paramilitari al servizio del governo di Daniel Ortega e della vicepresidente Rosario Murillo Zambrana, insieme alle forze antisommossa della polizia nazionale, ha provocato il peggior bagno di sangue nella storia del Nicaragua dopo la fine della guerra tra l’Esercito popolare sandinista e i Contras, nel 1990. Da allora, mai erano morte così tante persone in una sola settimana a causa di un’azione di cui è direttamente responsabile uno stato che, nel nostro caso, coincide con il sistema stato-patria-famiglia.

L’orrore e lo stupore provocati dall’uccisione di almeno 38 persone, in maggioranza giovani studenti, è paragonabile solo al massacro realizzato dalla dittatura di Anastasio Somoza contro la popolazione civile il 22 gennaio 1967. Ciò che non è cambiato è l’impossibilità di determinare il numero esatto di vittime. È attualmente in corso un’ampia indagine per stabilire la verità, negli ospedali, negli obitori e nell’istituto di medicina legale, tutti luoghi dove il governo ha imposto il suo controllo e l’obbligo di riservatezza.

In una democrazia non bisognerebbe aspettare il conteggio definitivo dei morti per stabilire immediatamente le responsabilità dei colpevoli, e consegnare questi ultimi alla giustizia. In una “dittatura”, invece, Ortega ha potuto attivare un sistema d’insabbiamento e impunità affinché, come insegna il Gattopardo, “tutto cambi perché tutto resti com’è”.

La repressione ininterrotta
Da quando sono state registrate le prime tre vittime, tra cui un poliziotto, il 19 aprile, nel secondo giorno di proteste, Ortega, in quanto capo supremo della polizia nazionale, avrebbe dovuto interrompere la repressione, ordinando la sospensione dei poliziotti coinvolti e disponendo un’indagine nei loro confronti. Invece il governante assente e la sua vice onnipresente hanno cercato di sminuire la protesta definendo i giovani studenti “gruppuscoli”, “vampiri succhiasangue” o “teppisti”, e hanno anche ordinato di aumentare la repressione.

Solo così si spiega l’irrazionalità dell’uso eccessivo della forza da parte di poliziotti e paramilitari per soffocare una protesta sociale, avvertita da Ortega come una minaccia politica al suo monopolio nel controllo della piazza.

Il presidente e la vicepresidente hanno le mani sporche di sangue

Per più di un decennio la polizia nazionale è stata un’istituzione sottoposta alla strumentalizzazione del partito di Ortega, con la complicità dei dirigenti di polizia Aminta Granera, Róger Ramírez e Francisco Díaz. Questi sono stati, in diverse fasi del regime, corresponsabili delle azioni criminali in cui è stata coinvolta la polizia, compresa la repressione e le torture.

Hanno modellato un’istituzione senza autorità né capo istituzionale, che può essere così telecomandata da Ortega e Murillo, fino a provocare una carneficina. Di conseguenza, devono essere sollevati dai propri incarichi e sottoposti a un’indagine non solo tutti gli alti capi della polizia, ma anche i loro responsabili di grado più elevato, cioè Ortega e Murillo. Il presidente e la vicepresidente hanno le mani sporche di sangue, e se già prima era in dubbio la loro legittimità costituzionale, oggi risultano anche moralmente indegni di governare.

Le due facce della stessa medaglia
È questo il punto centrale del “dialogo nazionale” al quale è stato invitato il governo grazie alla mediazione dei vescovi della conferenza episcopale del Nicaragua. Non vi è alcuna separazione tra il desiderio di verità, giustizia e castigo dei colpevoli e l’uscita di scena politica di Ortega e Murillo. Entrambi rappresentano le due facce della medaglia dello stesso problema nazionale, il cuore di una crisi di malgoverno che va risolta per cedere il passo a una riforma politica che permetta di organizzare elezioni anticipate, con piene garanzie per tutti.

Come stabilire la verità e la giustizia di fronte a una “dittatura” che si fa beffa del sangue e dei morti, e avviare una parvenza di indagine a carico della magistratura e del parlamento? Il Nicaragua ha bisogno di una commissione per la verità indipendente, guidata dalla Commissione interamericana per i diritti umani (Cidh) dell’Organizzazione degli stati americani (Osa), che getti luce sui crimini causati dalla repressione, identifichi i responsabili e li consegni alla giustizia.

Nel settembre del 1978, dopo il massacro compiuto dalla guardia nazionale contro la popolazione civile, Somoza accettò la visita della Cidh perché indagasse e documentasse le violazioni dei diritti umani. Ortega non potrà rifiutare la visita della Cidh se i governi del continente esigeranno l’applicazione dei meccanismi previsti dalla Carta democratica.

La fine della dittatura con strumenti pacifici sarà possibile se, insieme al dialogo nazionale, rimarrà vivo lo stato di mobilitazione che ha animato il movimento studentesco spontaneo. Però è necessario anche il contributo delle forze economiche imprenditoriali, dei sandinisti che ambiscono a riformare il Fronte sandinista di liberazione nazionale, preso in ostaggio dai seguaci di Ortega, e la pressione della comunità internazionale.

Con il dolore provocato dal massacro, sta nascendo una speranza di unità capace di onorare il debito del paese nei confronti dell’eredità di chi – come mio padre, Pedro Joaquín Chamorro Cardenal – è stato assassinato quarant’anni fa, affinché il Nicaragua torni a essere una repubblica. Anche questo è il nostro omaggio a tutte le persone che sono morte durante questa nuova dittatura.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato dal settimanale nicaraguense Confidencial.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it