01 marzo 2012 00:00

Il linguaggio, forzato dall’evoluzione delle cose, si adatta alle nuove mode di percezione e di raffigurazione del mondo. Spesso al prezzo di qualche contraddizione. Abbiamo metabolizzato la “realtà virtuale”, maniera complessa di far convivere l’immateriale della rappresentazione del mondo e la sua esistenza tangibile. Paul Virilio ci ricorda che l’immagine virtuale esiste da sempre, ma che si tratta di uno stato mentale (il sogno), mentre oggi è anche strumentale, grazie alle tecnologie. E ora ecco che si presenta davanti a noi la nuova nozione di “realtà aumentata”: visitando un monumento, una città, un museo, grazie a smartphone e tablet, si può filtrare l’immagine di fronte a noi.

Sullo schermo del dispositivo appare la possibilità di ottenere informazioni su quello che vediamo. Se questo significasse semplicemente la morte delle poco pratiche audioguide, pazienza. L’individuo, in simbiosi con il suo schermo, potrà soddisfare il suo bisogno di autonomia. Ma oltre ad accentuare il nostro isolamento, che significa questa necessità di “aumentare” la realtà che sperimentiamo con delle informazioni in diretta? Si tratta di un’insoddisfazione rispetto al mondo così com’è? La voglia di sostituire – con nostalgia – il presente con un passato già vissuto che possiamo soltanto interpretare? A meno che “aumentare” la realtà non sia un modo per soddisfare il bisogno continuo di sfuggirgli.

Internazionale, numero 938, 2 marzo 2012

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