13 aprile 2016 16:36

Da un paio di giorni si parla nuovamente di Doina Matei, la ragazza romena – oggi una donna – che nove anni fa, nella metropolitana di Roma, dopo un litigio nato dal nulla colpì con un ombrello Vanessa Russo, provocandole un’emorragia cerebrale e la morte. Si è tornato a parlare di lei perché qualcuno ha notato che Matei, condannata a sedici anni di carcere e da poco in semilibertà, ha pubblicato delle sue foto su Facebook: foto normali, nella sua camera, per strada, al mare.

Vari giornali hanno ripreso la notizia dandole molta enfasi, sottintendendo e alle volte esplicitando un senso di forte indignazione: com’è possibile che un’assassina (o “una killer”, come scrivevano alcuni giornali) possa accedere alla semilibertà? Com’è possibile che si faccia vedere in modo così sfacciato o non stia nascosta, colpita da damnatio memoriae? E addirittura si mostri sorridente e perfino “in bikini”?

Scrive oggi Massimo Gramellini sulla Stampa:

Doina Matei ha tutto il diritto di essere contenta, visto che la legge glielo consente. Ma ha diritto di mostrare la sua contentezza al mondo, e quindi anche ai parenti della vittima, attraverso un social network? Quelle immagini indignano e il moralismo non c’entra. Neanche il desiderio di vendetta. C’entra la sensibilità. C’entra che se ammazzi una persona, dovresti almeno avere il pudore di tenere per te le tue emozioni gioiose, senza ostentarle e tantomeno condividerle con chi patisce ancora le conseguenze del tuo delitto.

Come sempre più spesso accade, ecco che i commentatori si sono sostituiti ai giudici e hanno parlato di “ragioni di opportunità”, infliggendo una pena aggiuntiva – un castigo mediatico – che a quanto pare dovrebbe essere comminata, e per sempre, per i colpevoli.

L’ultima volta in cui fino a ieri avevo letto qualcosa su Doina Matei era stato l’anno scorso, quando Antonio Pennacchi sul Corriere della Sera metteva a confronto il suo caso con quello del 2010 di Maricica Hahaianu, una donna anche lei romena anche lei massacrata dopo un litigio alla stazione della metropolitana da un uomo italiano, Alessio Burtone. Tragedie entrambe terrificanti e simili, forse più indice di un clima di violenza repressa e diffusa, capace di deflagrare per minimi attriti.

Condannato per omicidio preterintenzionale, ma a otto anni, Burtone riuscì a ottenere l’affidamento ai servizi sociali dopo quattro anni. Il rilievo implicito che faceva Pennacchi era che nel caso di Matei aveva chiaramente pesato il suo essere straniera e il suo essere donna. Un criptorazzismo mescolato a un criptosessismo, che anche nel dibattito di questi giorni non sono così evidenti solo perché sono oscurati da una coltre fitta di bilioso giustizialismo.

Si leva un risentimento senza pace che mette in discussione lo stato di diritto in nome di un populismo penale

Ma la cosa che più dispiace ogni volta che l’attenzione pubblica ritorna su un caso doloroso di cronaca giudiziaria, è che la reazione sia questo livore pavloviano. Era successo recentemente con Giovanni Scattone, vincitore di un concorso pubblico, o con la nomina di Adriano Sofri a consulente del ministero della giustizia per le carceri.

Succede ormai con ogni processo che abbia un minimo di visibilità pubblica. Si leva un risentimento senza pace che mette in discussione lo stato di diritto in nome di quello che un bel libro recente ha definito “populismo penale”. Chi fa affidamento sulla razionalità, chi spera che la giustizia processuale e il pagamento della pena siano sufficienti per il ritorno alla normalità, alla fine è costretto ad arrendersi al linciaggio.

Ieri il profilo Facebook di Matei è stato oscurato, così come Scattone e Sofri avevano rinunciato al loro incarico. E oggi le è stata sospesa la semilibertà dal giudice di sorveglianza Vincenzo Semeraro, che ha dichiarato che la donna non poteva utilizzare i social network. L’avvocato Nino Marazzita sostiene invece che non era specificato nessun divieto del genere e spera che le venga ripristinata al più presto. Comunque vada, i populisti penali hanno vinto.

La condanna di Doina Matei a sedici anni per omicidio preterintenzionale è stata, se ci pensate, un’enormità: l’esito tragico di una rissa in treno. Ma comunque: Matei sta scontando la pena, finora in regime di semilibertà, a Venezia.

A ventun anni aveva già due bambini, che in questi anni da lei passati in prigione sono stati aiutati, anche economicamente, dalle varie persone che le sono state vicine, per comprensione e umanità. Oltre agli anni di carcere è stata condannata al risarcimento di ottocentomila euro per i familiari della vittima.

Rabbia inutile

Qualche anno fa uscì un’antologia per Mondadori che s’intitolava Volete sapere chi sono io?, nata da un’iniziativa del ministero di grazia e giustizia: raccoglieva racconti di detenuti scritti in collaborazione con giornalisti e scrittori. Non è solo in quell’occasione che Matei – allora aiutata da Franca Leosini – ha espresso con nettezza il suo pentimento, il suo dolore per la morte di Vanessa Russo.

Ne ha parlato pubblicamente decine di volte, promettendo anche di andare a pregare sulla tomba appena uscita di prigione (promessa il cui mancato rispetto le viene oggi rimproverato da chi evidentemente non ha presente che lei non può per ora muoversi da Venezia). E quindi, cosa si vuole ancora?

Perché invece di essere rabbiosi e indignati, non si può essere minimamente contenti per lei? E se non per lei per noi, che facciamo parte di quella comunità che identifichiamo con lo stato? Non sembra che questo cammino di riabilitazione stia bene o male funzionando? Che, come scrive la costituzione italiana all’articolo 27, questa pena “sia umana e tenda alla rieducazione”?

Altrimenti quale destino vogliamo per Doina Matei? La pena di morte, come qualcuno si augurava sul suo profilo Facebook ieri?

Nel 1764 Cesare Beccaria in Dei delitti e delle pene scriveva che il fine della pena “non è altro che quello d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi concittadini e di rimuoverne gli altri dal farne di eguali”. Non pensiamo che quest’obiettivo in questo caso sia già abbondantemente raggiunto? O qualcuno di noi è convinto che Matei potrebbe tornare a uccidere, o essere emulata? Sedici anni per un omicidio senza intenzione non sono stati abbastanza esemplari?

Questa citazione di Beccaria è riportata nella prefazione di Nadia Urbinati a un piccolo ma fondamentale libretto appena uscito per Donzelli, Lo spirito del garantismo di Dario Ippolito. Prima di ricostruire a grandi linee l’importante innovazione del dibattito settecentesco (da Montesquieu a Bentham) sulla pena, Ippolito si chiede perché garantismo oggi sia una parola così svilita, e quando si nomina la si associa a sue degenerazioni: “garantismo peloso, garantismo d’accatto, garantismo ipocrita, garantismo eccessivo… la teoria delle aggettivazioni spregiative è un flusso continuo nel dibattito pubblico”.

Già, perché il garantismo non può essere non solo difeso ma promosso da tutti gli attori del dibattito pubblico? Perché una conquista così importante della nostra civiltà deve essere ogni giorno messa in discussione da coloro che dovrebbero esserne i tutori?

Anche questo articolo, sono convinto, nei suoi commenti su Facebook o altrove, troverà subito qualcuno che dirà: e Vanessa Russo? Chi ci pensa a Vanessa e alla sua famiglia? Certo, la pena che si prova per una ragazza di 23 anni morta per un litigio finito molto male è davvero indicibile. Ed è giusto che uno stato debba essere vicino alle vittime e garantirgli giustizia.

Ma al contempo chi si occupa della cosa pubblica deve riuscire a creare anche la possibilità di una riconciliazione e non alimentare un sempiterno odio, soprattutto nei casi come un omicidio preteritenzionale. E questa stessa possibilità di ricucire piano piano le ferite e non tenderle, riacutizzarle, è anche il compito che possiamo avere noi che ne parliamo in un post su Facebook o in un articolo di giornale.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it