01 marzo 2017 13:40

La settimana scorsa, all’inizio di un’ora di lezione, i miei studenti mi hanno chiesto se avessi visto “il video del supermercato”, cioè quel filmato in cui si vedono due dipendenti del Lidl di Follonica che rinchiudono due donne rom in una specie di gabbiotto dei prodotti rovinati. Dura tre minuti e i dipendenti sghignazzano mentre le due donne urlano di paura.

Il video è stato postato su Facebook e ha avuto un’ampia circolazione, provocando un forte dibattito: alcuni utenti hanno scritto “se punite i dipendenti, vi boicotterò”, altri “se non li licenziate, vi boicotterò”. La Lidl ha scritto un comunicato molto netto in cui condannava il gesto e molti politici si sono schierati, alcuni promettendo tutela legale alle due donne, altri tutela legale ai due dipendenti.

“L’ho visto”, ho risposto. “E cosa ne pensa, prof?”, mi hanno chiesto gli studenti.

Non era una risposta difficile: quel filmato è agghiacciante, ritrae una violenza che non si riconosce nemmeno come tale, l’odio nei confronti dei rom è una delle cose più terribili del nostro tempo e i social network spesso rendono il nostro mondo peggiore. Ma mentre formulavo a mente queste frasi non sono stato sicuro che fosse veramente quello che pensavo.

Punti di vista
Invece di rispondere, ho chiesto a loro quali riflessioni avessero fatto. Avevo due ore, potevo passarne una a discutere del video, anche se rischiavo di non svolgere la lezione prevista sul positivismo e di trasformare la classe in una parodia di un talk show. Ho detto: va bene, dedichiamo un’ora alla discussione, ma che sia una discussione argomentata.

Una ragazza ha detto che secondo lei i due avevano sbagliato ma che evidentemente la situazione davanti al supermercato era esasperata da tempo (l’aveva saputo da un servizio in tv); un’altra ha esordito con la frase “io non sono razzista ma” e poi ha raccontato una serie di casi – non pochi – in cui viene infastidita da alcuni ragazzi rom quando va in palestra; un altro ha detto che la violenza dei due dipendenti non era giusta ma che poteva risultare esemplare; un’altra ragazza ha detto che trovava mostruoso quello che era accaduto e che il razzismo diffuso nei confronti degli zingari induce comportamenti disumani; un altro ha detto che il vero sbaglio che hanno fatto è stato non tanto imprigionare le due donne o filmarlo, ma postarlo su Facebook.

Non erano così chiare le loro posizioni, ma ho cercato ogni volta di tradurle in termini semplici. Ci sono state le risposte, con difficoltà ho fatto sì che non si rispondessero l’uno con l’altro confusamente – ma che ne sai, ma che stai a dì, la loro cultura è rubare, loro sono incivili, te vorrei vede te – e quindi sono arrivate le controrepliche, che implicavano anche una serie di questioni aperte: che cosa si fa quando l’azione delle forze dell’ordine non riesce a fermare comportamenti illegali? Se un’azienda deve badare alla tutela dei suoi clienti, come può agire nei confronti di chi invece li danneggia? Come si può educare chi non ha rispetto nei confronti degli altri? Facebook deve censurare video del genere? È giusto che vengano accusati di sequestro di persona? Questi episodi non sono il sintomo di una degradazione civile, di un fascismo diffuso?

Mi sono reso conto che la risposta iniziale che mi ero dato, semplice e netta, era solo parziale

Mentre loro esponevano uno dopo l’altro le loro posizioni, ho cercato di stargli dietro e ho scritto alla lavagna un piccolo schema delle questioni che emergevano dal dibattito. C’erano delle questioni di tipo morale, c’era il tema della cultura rom e di quanto noi la conosciamo, c’era l’elemento dell’umiliazione, c’era un piano giuridico, c’era l’aspetto della rete, il tema della sicurezza, quello della vigilanza pubblica e privata, quello della reputazione del marchio. Alla fine ho cercato di sintetizzare quello che era venuto fuori in tredici punti.

“Adesso prof però ci deve dire quello che pensa lei”, mi hanno detto. E io ho risposto: “Va bene, ancora un secondo”. Ho tentato quindi di illustrare ogni punto attraverso autori o tematiche che avevamo sviluppato nel programma di filosofia o di storia, o che loro hanno probabilmente fatto in italiano.

Cosa ne pensa Kant, quali sono le caratteristiche perché un’azione sia moralmente giusta? E cosa dice Beccaria sull’efficacia delle sanzioni? Quando sono cominciate le prime persecuzioni contro i rom durante il nazismo? Vi ricordate la teoria delle finestre rotte? Quale filosofo parla di empatia come origine della morale?

Ho nominato qualche altro autore che poteva aiutarci ad affrontare certi argomenti: gli ho detto brevemente chi fosse René Girard, l’antropologo francese che ha studiato i meccanismi sociali del linciaggio e gli ho promesso che gliel’avrei introdotto meglio nelle prossime lezioni. Poi gli ho citato delle fonti che potevano consultare da soli. Sui rom in Italia la più affidabile è l’associazione 21 luglio, che si occupa di monitorare la condizione dei rom e dei sinti in Italia.

“Sì, va bene, ma ci deve dire cosa ne pensa lei”, mi hanno incalzato. E a quel punto mi sono reso conto che la risposta iniziale che mi ero dato, semplice e netta, era solo parziale.

Tra i banchi s’impara a discutere
Ho detto che per me di tutta la storia l’aspetto che mi interessava di più era come se n’era parlato, e nonostante trovassi l’episodio riprovevole, quello che più mi stava a cuore non era nemmeno che i due dipendenti fossero sanzionati o che il gesto venisse pubblicamente esecrato, o che si provasse ovviamente a dare una condizione migliore ai rom in generale invece di farli stazionare nei campi nomadi.

Il punto vero per me, ho detto, è la qualità del discorso pubblico. Sull’episodio in sé non possiamo intervenire, non possiamo fare molto: possiamo cercare di comprendere, possiamo schifarci o anche rimanere indifferenti, ma schierarci su un social network o cercare di imporre il nostro punto di vista non servirà a molto.

Quello che possiamo fare è usare questo come altri episodi per chiarire meglio la nostra posizione attraverso il confronto con gli altri, cambiare idea, non cambiarla ma saperla argomentare meglio, aumentare la nostra conoscenza, della filosofia morale come della cultura rom come dell’antropologia dell’umiliazione. Ma dall’altra parte, soprattutto, occorre preoccuparci della qualità del dibattito.

Soprattutto questo possiamo fare: curare la qualità del dibattito, del confronto. Quest’ora che avevamo passato a scuola, ascoltando tutte le posizioni, anche le più estremiste – bisognerebbe dargli fuoco agli zingari – è servita a capire che la scuola forse rimane l’unico luogo dove una discussione del genere può avvenire.

Non accade in televisione, non accade sui giornali, non accade sui social network. In questo senso la scuola è preziosa, e tutelare questo spazio è fondamentale. Sarebbe importante provare a esportare al di fuori un modello di dibattito pubblico che noi impariamo faticosamente a scuola.

Questo ne penso.

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