22 aprile 2020 15:27

La dispersione scolastica, le disuguaglianze nell’apprendimento, il ritorno dell’analfabetismo letterale e funzionale saranno questioni centrali nella politica dei prossimi anni. Il 27 marzo l’Unesco evidenziava uno degli effetti più impressionanti della pandemia: 1,6 miliardi di studenti hanno smesso di andare a scuola. E il rischio è che tanti interrompano il loro percorso scolastico o che lo seguano con grande irregolarità.

In Italia gli studenti sono dieci milioni. Nove milioni tra scuola primaria, medie e superiori; un milione tra infanzia e nido. Migliaia stanno rimanendo indietro, non potendo o non riuscendo a seguire la didattica a distanza. Tanti faticheranno a recuperare e costituiranno una sorta di generazione covid, caratterizzata dalla mancanza di opportunità e dall’emarginazione.

Il comunicato stampa dell’Istat del 6 aprile fotografa una condizione allarmante per il diritto all’istruzione, anche al netto dell’emergenza pandemica. Nel periodo 2018-2019, il 33,8 per cento delle famiglie non ha computer o tablet in casa, una quota che scende al 14,3 per cento tra le famiglie con almeno un minore. Solo nel 22,2 per cento delle famiglie ogni componente ha a disposizione un computer o un tablet. Nel centro-sud il 41,6 per cento delle famiglie è senza computer in casa (rispetto a una media di circa il 30 per cento nelle altre aree del paese) e solo il 14,1 per cento ne ha a disposizione almeno uno per ciascun componente.

Il ruolo delle aziende di telecomunicazione
Altri dati ci dicono che le case italiane sono grandi in media 81 metri quadri, più piccole rispetto a quelle di molti paesi in Europa (in Spagna parliamo di 97 metri quadri, in Germania di 109 e in Francia di 112), ma anche a quelle di paesi dove secondo il nostro immaginario le persone vivono in abitazioni molto piccole: per il Giappone la media è 95 metri quadri, per esempio.

Che le disparità profonde vissute in casa siano una delle ragioni principali delle disuguaglianze scolastiche, e quindi sociali, non è una scoperta di questi giorni; la quarantena la mette solo in evidenza, e a volte la amplifica.

Andrea Gavosto, della fondazione Agnelli, in un intervento sul Sole 24 Ore ha aggiunto un altro aspetto critico:

È tragico che il 20 per cento rischi di rimanere escluso perché non dispone di devices e connessioni o non ha uno stimolo sufficiente, dalla famiglia, dai docenti, da sé stesso. (…) Molto potrebbero gli operatori informatici e delle telecomunicazioni: ad esempio, in Brasile non si paga quando si accede a risorse per la didattica a distanza.

La mancata disponibilità degli strumenti tecnologici è un nodo che il ministero dell’istruzione ha provato a tamponare. I fondi stanziati dal governo per la scuola sono 85 milioni di euro. Pochi, e così ripartiti:

  • Dieci milioni per comprare strumenti digitali o per favorire l’uso di piattaforme di e-learning, con particolare attenzione all’accessibilità degli studenti con disabilità.
  • Settanta milioni per mettere a disposizione degli studenti meno abbienti dispositivi digitali e connessione internet, in comodato d’uso.
  • Cinque milioni per la formazione del personale.

È evidente che la maggior parte dei soldi per la scuola andranno a gestori di telefonia e operatori informatici, e forse si poteva immaginare diversamente questa ripartizione; e soprattutto si poteva valorizzare l’uso del software libero, con una serie di vantaggi: la formazione degli insegnanti, una ricaduta economica sul territorio, una maggiore sicurezza dei dati. Vedremo se ci sarà un ripensamento, o almeno una correzione di rotta.

Un circolo vizioso
Intanto le organizzazioni che si occupano di dispersione scolastica ribadiscono che ogni progetto per il futuro deve avere come priorità quella di non lasciare indietro nessuno. Il pericolo maggiore invece è che si innesti un circolo vizioso tra nuove povertà e disuguaglianze educative, tenendo conto di quanto sia drammatica la situazione di partenza con la quale dobbiamo confrontarci.

L’obiettivo del programma Europa 2020 era di ridurre la dispersione scolastica al 10 per cento entro il 2020. In Italia, dopo un calo progressivo nei primi dieci anni del duemila, che aveva portato l’abbandono al 13,8 per cento nel 2016, c’è stato un aumento nel 2017 (14 per cento) e nel 2018 (14,5). Non è difficile prevedere un ulteriore incremento.

In un recente documento Raffaela Milano, responsabile di Save the children Italia, snocciola altre cifre preoccupanti: “Il 77,6 per cento delle famiglie ha visto improvvisamente cambiare la propria disponibilità economica e il 73,8 per cento di rispondenti ha perso il lavoro o ridotto drasticamente il suo impegno retribuito. Il 17,6 per cento è andato in cassa integrazione”. Si prevede, dunque, una nuova crisi per il mondo dell’infanzia, dopo quella causata dal crollo dell’economia mondiale nel 2008. Nell’ultimo decennio il numero di bambini in povertà educativa è cresciuto fino a quadruplicare.

Il rischio concreto è che questo aumento non si fermi. Mai come oggi sono da evitare misure improvvisate e confuse, che rischiano di creare sprechi. Bisogna affrontare la crisi attraverso un piano organico immediato e di lungo periodo, da costruire a partire dai territori.

La pianificazione necessaria
I problemi con cui bisogna fare i conti sono diversi, dalla difficoltà di organizzare la didattica a distanza alla perdita delle competenze linguistiche per i figli di famiglie straniere. “Non si possono affrontare senza pianificazione”, ricorda sempre Save the children, “sarebbe utile avere a disposizione i dati dell’anagrafe scolastica per vedere chi sta usando davvero didattica a distanza e come, per poi ragionare su un piano per l’estate”.

Questa rete senza soldi e con un impegno volontario sempre più gravoso non può durare a lungo

Nessuno nella sanità era preparato alla possibilità di una pandemia; ovviamente nessuno lo era nella scuola. E in questa prima fase emergenziale, abbiamo visto che più che un’organizzazione sistematica degli interventi sono emerse la solidarietà e il mutualismo. Sul sito della fondazione Conibambini, che segue molti progetti di contrasto alla povertà educativa, Marco Rossi Doria, collaboratore della fondazione, riconosce che molto di quello che si sta facendo è merito delle persone di buona volontà: “La lotta alla povertà educativa minorile sta continuando nonostante condizioni molto difficili. (…) Oltre a tanti docenti che lavorano ben oltre il tempo contrattuale, reti di parrocchie e doposcuola, docenti in pensione, è impegnato tutto il mondo dell’attivazione civica, sociale ed educativa, i comuni, le fondazioni, gli scout, la rete dello sport, le grandi organizzazioni della solidarietà, le istituzioni e agenzie pubbliche e private che nel tempo hanno lavorato all’innovazione nell’uso degli Ict a scuola e della didattica a distanza, molte imprese, privati, volontari”.

Se da una parte, in questa collaborazione tra studenti, genitori e docenti si riconosce il senso più concreto di formule pedagogiche tante volte evocate come quella di comunità educante, dall’altra è molto chiaro che questa rete senza soldi e con un impegno volontario sempre più gravoso non può durare nel lungo periodo. Ed è altrettanto palese che le iniziative autonome, dal basso, senza monitoraggio, senza selezione, senza coordinamento, rischiano anche di fraintendere i princìpi basilari della pedagogia: dall’inclusione al contrasto delle disuguaglianze, alla promozione dell’autonomia.

La scuola è l’istituzione intorno a cui la maggioranza delle famiglie italiane organizza la propria vita

Se poi pensiamo all’educazione parentale (l’istruzione impartita a casa) messa in atto forzatamente in questi giorni, essa può essere vantaggiosa solo per studenti che hanno genitori insegnanti, o in grado di dedicare molto tempo ai figli e seguirli anche più di prima; lo è ovviamente molto meno, per esempio, per i figli di cittadini stranieri che non parlano italiano e che nella riduzione o nella cancellazione dei momenti di confronto con altri compagni e con i maestri, rischiano di perdere le competenze linguistiche di base.

È solo quando ci manca qualcosa che ci rendiamo conto di tutte le funzioni che assolveva. Ed è così anche per la scuola, che è l’istituzione intorno a cui la maggioranza delle famiglie in Italia organizza la propria vita. Chi ha a cuore la scuola si interroga, dunque, non tanto sulle date della riapertura o sul funzionamento degli esami, ma su quale possa essere l’equilibrio tra il diritto all’istruzione e quello alla salute pubblica, tenendo conto anche dell’articolo 3 della costituzione, che prevede la rimozione degli ostacoli e la dignità sociale per tutti.

Lo sforzo per non lasciare indietro nessuno non è solo un tema centrale per la politica, ma una lente attraverso cui possiamo osservare l’intera società, e le differenze che esistono e che mutano anche in questa crisi: tra aree urbane e aree interne, tra centro e periferia, e ora tra zone più o meno colpite dal contagio.

Ci sono regioni dove il coronavirus è paradossalmente servito ad attivare interventi necessari a prescindere dalla pandemia. A Reggio Calabria, come in buona parte del sud, il tasso di dispersione scolastica è del 20 per cento. “Abbiamo studenti che spesso sono assenti a scuola, immaginate cosa vuol dire fare con loro didattica a distanza”, dice l’assessora comunale alle minoranze linguistiche Lucia Anita Nucera. “Per fortuna, anche grazie alla prevenzione sul territorio, i numeri del contagio sono bassi, e quindi possiamo seguire in assistenza domiciliare alcuni ragazzi in difficoltà. Per il resto servono molti fondi, e stiamo cercando di ottenerli anche con gli strumenti ordinari come il Programma operativo nazionale”.

Quella degli studenti più fragili, dei ragazzi e delle ragazze con disabilità, e di tutti quelli che hanno un sostegno in classe, sembra una questione sparita dal dibattito pubblico, concentrato sugli esami di maturità o su una famigerata fase due. In questo senso Graziamaria Pistorino della Flc-Cgil, il settore scuola del sindacato, pone l’accento su un tema che non può essere eluso, cioè l’inclusione, che è l’obiettivo principale della scuola, da raggiungere anche attraverso l’insegnamento di sostegno: “Il problema della dispersione scolastica è il problema, ma per affrontarlo dobbiamo tornare il prima possibile alla didattica in presenza. Con la didattica a distanza come è possibile far sentire uno studente parte della classe? Ci dimentichiamo dei ragazzi e dei bambini più vulnerabili. Pensiamo al lavoro degli insegnanti di sostegno che è chiaramente un lavoro dedicato, ma è rivolto soprattutto a un percorso d’inclusione. L’unico modo per immaginare una scuola post-emergenza è investire sulle strutture e sul personale. Ma su questo punto la ministra dell’istruzione Lucia Azzolina non ci vuole ascoltare: è autoreferenziale”.

La priorità diventa non tanto come tamponare le mancanze in questo momento di crisi, ma come far sì che questo tempo di sospensione dell’attività scolastica normale non provochi danni a lungo termine o non accentui i deficit già esistenti.

Azzolina non ha potuto fare altro finora che ragionare per ipotesi sul come riaprire le scuole. L’infrastruttura digitale è fragile e non è adeguata alla didattica, ma anche quella fisica è difficilissima da adattare in tempi così rapidi e con così pochi fondi a quella che chiamiamo fase due. Il dilemma principale è come conciliare la necessità di ritornare quanto prima alla didattica in presenza con la necessità di garantire una didattica di qualità per tutti, tenendo conto del fatto che l’organizzazione sociale collettiva ruota intorno alla scuola, ed è indispensabile ragionare su un coordinamento tra la riapertura scolastica e quella delle altre attività.

La qualità dei contenuti digitali
“Tutti gli studenti alla fine di questo anno scolastico avranno una valutazione, ma le insufficienze saranno spostate all’anno prossimo. Questa idea nasce proprio dall’esigenza di tenere unita la comunità scolastica”, mi ha detto Azzolina. Aggiungendo che “dobbiamo sostenere chi sta facendo didattica a distanza, ma non possiamo permetterci di abbandonare quanti non riescono ad accedervi”. Secondo la ministra “sarebbe imperdonabile, si aumenterebbero distanze già oggi molto ampie. Sulle situazioni di maggior disagio stiamo lavorando insieme al mondo dell’associazionismo. C’è bisogno del contributo di tutti. Ma serve anche la consapevolezza che in due mesi non si possono curare i mali di anni. E c’è un tema che deve essere chiaro: siamo riusciti a salvare l’anno scolastico in corso, ma il prossimo sarà altrettanto impegnativo”.

Tra queste associazioni ci sono soprattutto quelle dei docenti, e poi ci sono gli enti culturali. Queste realtà stanno provando a compensare un altro deficit che la quarantena ha evidenziato: la scarsità di contenuti digitali. Chi non ha molti libri a casa, chi non sa districarsi tra i video e gli audio disponibili in rete, spesso resta penalizzato anche quando prova a studiare in modo autonomo, perso in un labirinto di sedicenti prodotti didattici.

Diverse piattaforme hanno tolto le chiavi d’accesso per rendere gratuiti i contenuti, ma le offerte sono spesso lacunose, a volte non aggiornate, e la qualità è molto disomogenea.

Un buon modello di una piattaforma educativa lo offrono il sito di Treccani scuola e quello di Loescher, che non solo raccolgono ma producono contenuti, e permettono di usarli come modello per costruire altre lezioni. Un aspetto fondamentale per valorizzare la formazione degli insegnanti.

L’altro rischio che tutti sperimentiamo in questi giorni è che la didattica a distanza diventi una modalità sempre più normale per fare scuola, senza riflettere sui diversi rischi che questa comporta. Pericoli che riguardano il ruolo dei docenti, la privacy degli studenti, l’applicazione acritica di certe piattaforme, la qualità dei contenuti. Queste riflessioni non possono riguardare solo alcuni addetti ai lavori. La scuola è di tutti, e dell’istruzione di dieci milioni di persone non può occuparsene solo il ministero dedicato.

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