28 maggio 2013 14:13

Dopo qualche giorno di resistenza uno cede. L’aria spessa della città fa diventare fatalisti. Ci si sente spossati, e la spossatezza diventa perdita d’interesse: che se la vedano loro. Quando la somma di caldo e umidità rende impossibile anche solo fissarsi su un pensiero per più di dieci secondi di fila, quando l’unico desiderio è stendersi sotto un ventilatore e non fare assolutamente niente non per il resto della giornata ma per il resto della vita, allora uno vuole soltanto dimenticare, non farsi domande: buttare l’immondizia senza sapere dove finirà, defecare in un bagno che forse mescola le sue acque reflue a quelle dell’acquedotto, lasciare che il guidatore di risciò affoghi nella pioggia, distogliere lo sguardo dal ragazzino pelle e ossa coperto di mosche che non ha la forza neanche per mendicare. Su tutta questa miseria si accende un neon: Non È Di Mia Competenza.

La notte, dato che è luglio, uno vorrebbe dormire con la finestra aperta, far entrare un po’ di vento, cambiare aria, ma non si può per colpa dei clacson. Il clacson qui non viene usato per segnalare pericolo, non avrebbe senso, dato che la strada è un’intera distesa di clacson, cioè non un brusio punteggiato da clacson ma un basso continuo di clacson punteggiato da rari momenti di brusio. Non viene neanche usato per manifestare irritazione: qui non si irrita nessuno, e nessuno mugugna o commenta a voce alta l’aggressività o la stupidità dell’automobilista che ci ha appena tagliato la strada a due chilometri all’ora. Non ci sono regole da violare, dunque come irritarsi? In nome di che? Si suona il clacson per dire “sto arrivando, sono qui, non venirmi addosso, non farti travolgere”: nella presunzione che qualcuno, se non avvertito a tempo debito, ci verrà sicuramente addosso, o lo travolgeremo. Il che è vero.

Chiudere le finestre, accendere l’aria condizionata. Dopo mezzanotte il traffico rallenta, i clacson si rarefanno, mi godo quattro ore pulite di sonno in fase pre-rem, fino a quando verso le quattro e mezza – un chiarore appena percettibile all’orizzonte che potrebbe essere l’aurora ma potrebbero anche essere le luci dell’aeroporto – la voce del muezzin chiama alla preghiera. È una voce amplificata dal megafono, è impossibile

non sentirla.

Uno potrebbe stupirsi per questa alleanza tra un messaggio iper-tradizionale (il Corano!) e un mezzo moderno, anche se non più modernissimo, ma il megafono è, come ha scritto una volta Naipaul, una “inevitabilità indiana” (Un’area di tenebra, Adelphi 1999). O un’inevitabilità islamica? Se col megafono si possono raggiungere, oltre alle persone che stanno nella moschea o nei paraggi, le orecchie di tutto un quartiere, perché non usarlo? L’effetto, per chi non conosce la lingua e non ama le religioni e ascolta la litania nel dormiveglia, è sinistro. Da noi ci sono le campane, provo a dire al mio cervello già orientato al pregiudizio, già propenso – nel dormiveglia, nel dormiveglia – a dare un pezzo di ragione alla Fallaci, ma la verità è che le campane sono tutta un’altra cosa, il rintocco delle ore è tutta un’altra cosa rispetto alla voce di uno col megafono che, alle quattro e mezza, ti vuole convincere di qualcosa.

E le notti successive la cosa si ripete: quattro ore di mezzo sonno stroncate dal megafono del muezzin. Nel dormiveglia successivo, che dura fino alle sei e mezza, prima che i clacson si riaccendano, sogno. Sogno in corsivo: nel senso che i sogni che faccio sono i più vividi e realistici che ricordo di aver fatto in vita mia. Li annoto subito appena riesco a raggiungere carta e penna con la mano, ma in realtà non ce n’è bisogno perché tutto rimane nitido per molte ore, come se la cantilena del muezzin contenesse una droga che incolla i sogni alla memoria. Una notte sogno la compagna di liceo di cui ero innamorato che attraversa l’incrocio tra via Filadelfia e corso Orbassano, a Torino, in compagnia di un gruppetto di persone anziane. Propongo di andare tutti quanti in un bar lì vicino per bere qualcosa, chiacchierare. Lei mi squadra e commenta che io, come sempre del resto, dimentico che per gli anziani camminare è faticoso. Così ci porta in un altro bar che però è più lontano dell’altro. Un’altra notte sogno di entrare in una gelateria. C’è un bambino seduto sul bancone, gli faccio capire che è il suo turno, sono arrivato dopo, ma lui mi dà la precedenza. Voglio un cono da tre euro. Esito tra i gusti, la donna dietro il bancone mi suggerisce qualcosa. Il bambino legge i gusti e domanda: “Posso taggarli?”. La signora annuisce. Io commento: “Non so neanche cosa vuol dire”. Lei replica: “Siamo un po’ indietro, eh!?”. Io ho una crisi di riso incontenibile, che mi sveglia.

La mattina, sui mobili si è riformata la patina di polvere umida che avevo tolto otto ore prima: i polpastrelli ci lasciano un’impronta visibile. E nonostante l’aria condizionata tenuta accesa tutta la notte la stanza puzza dell’umido che esala dai tendoni di stoffa pesante. Prima di entrare in bagno busso forte alla porta per mandare via gli scarafaggi.

Fuori, quella di “fare una passeggiata” non è veramente una buona idea. Metà delle strade non sono asfaltate, e i diluvi mattutini le trasformano in piscine di fango. I marciapiedi, quando ci sono, sono consumati, dissestati, corrosi dall’umidità, e ogni quindici-venti metri si spaccano in voragini grandi abbastanza da risucchiare un essere umano – voi – precipitandolo in quest’incubo fantozziano: la fogna di Chittagong. Per strada, i cani sono tutti randagi e tutti uguali, sempre gli stessi bastardi di taglia media col muso affilato. La diversificazione delle razze è roba da cani al guinzaglio, e da paesi ricchi. Dopo un po’ che li incrocio uscendo di casa, li riconosco per le mutilazioni: quello senza un occhio, quello con tre zampe, leggermente diverso da quello con tre zampe e un moncherino, quello senza la coda. Sembrano innocui, nonostante la fame; e sembrano ignorare gli esseri umani che pullulano attorno a loro, ignorandoli a loro volta. Brucano negli angoli, coi corvi.

La strada davanti al mio appartamento è a due sensi, come tutte (non esistono norme di circolazione, dunque non esistono strade a senso unico, segnaletica), ma naturalmente non c’è mezzeria, e le macchine che provengono dalle due direzioni occupano tutta la carreggiata. Così non ha molto senso dire che “si creano ingorghi”; è il contrario, gli ingorghi occasionalmente si sciolgono per qualche secondo, per poi riformarsi come prima. L’ingorgo è la condizione normale del traffico di Chittagong. L’eccezione, tra la mezzanotte e le sei del mattino, è l’effettiva circolazione delle auto e dei risciò. Veicoli sulla strada: automobili, pulmini, camioncini con le ribalte decorate come quelle dei carrettini siciliani, mini-taxi a motore tipo Ape, risciò, carretti a trazione animale. In teoria ci si aspetterebbe aggressività da parte degli automobilisti e, da parte dei risciò, la quieta prudente difesa della corsia di sinistra (in Bangladesh si viaggia a sinistra), invece no, sono tutti aggressivi ma, come ho detto, senza cattiveria. La mancanza di leggi – tutti possono parcheggiare ovunque, tutti possono superare ovunque e chiunque – produce il caos, un caos di magnitudine non europea, ma anche una specie di tolleranza zen nei confronti del caos.

Agli incroci dove proprio non se ne può fare a meno, gli incroci di quattro-sei arterie medio-grandi, ci sono anche i semafori. La gente non li rispetta ma, come dire, li prende in considerazione. Nessuno veramente passa col rosso: ‘passare’ non è un verbo che abbia senso usare in uno spazio che, dalle sette del mattino all’una di notte, è saturo di ogni genere di veicolo + gente che cammina o si trascina lungo la strada + gente che sta ferma sul ciglio della strada + cani. Se il semaforo è rosso, il guidatore spinge avanti il muso e s’incolonna nella colonna di macchine che occupa il centro dell’incrocio. Se il semaforo è verde fa più o meno lo stesso. Più frequenti dei semafori sono le rotatorie, ma per far funzionare le rotatorie bisognerebbe rispettare la precedenza: qui nessuno la rispetta, nessuno si azzarda a dare la precedenza a chi è già sulla rotatoria perché questo vorrebbe dire rallentare e fermarsi e correre il rischio di farsi tamponare. Guardando il groviglio che si crea uno afferra per la prima volta la verità letterale dell’espressione inglese

traffic jam: perché quella che si vede è veramente una marmellata, un solida, pastosa marmellata di macchine che gira a singhiozzi attorno al centro strada. A guardare c’è anche qualche addetto al traffico in divisa grigiastra, del tutto irrilevante e perciò serafico: fumano, parlano tra loro, accompagnano con le mani il flusso delle auto – flusso inesistente dato che sono tutti fermi. Un passatempo diverso per il sabato sera? Girare a destra a un incrocio con la macchina. Per passare dalla grande arteria X (senza nome) alla piccola arteria Y (senza nome) dove c’è casa mia, dieci metri, il mio taxi impiega, cronometrati, 7 minuti, dalle 19.03 alle 19.10.

Il fatto è che in Bangladesh è arrivato soltanto il primo tempo della modernizzazione, quello della mobilità a gas e della plastica. Il consumismo di tipo occidentale, o anche tipo Bangkok, quello in cui tutti si sfiorano nei mall e tutti comprano qualsiasi cosa, ancora non c’è. Ci sono solo infilate di chioschi che vendono pentole di latta e tupperware, tonnellate di bicchieri, piatti, scodelle di plastica rosse e blu portate a dorso d’asino e sciorinate sul marciapiedi. Così uno si trova imbarcato in un viaggio nel tempo che lo porta non nell’età pre-tecnologica ma nell’età della tecnologia difettosa, balbettante, forse i nostri anni quaranta o cinquanta. Se in una stanza ci sono tre lampadine, gli interruttori, tutti montati all’esterno della stanza, sono almeno cinque: tre accendono e spengono le luci, uno è l’interruttore generale, il quinto non serve a niente. I ventilatori dell’appartamento sono quattro, ma azionati da un comando unico, per cui uno può scegliere soltanto tra l’afa appiccicosa della stagione dei monsoni e l’effetto-bora. Ma la misura del gap tecnologico si avverte soprattutto nelle piccole cose, e si sente soprattutto con le dita. Il Bangladesh ha, tra gli altri problemi minori, quello – brillantemente risolto in occidente – dell’apertura dei pacchi, dei flaconi, delle lattine, e insomma di ogni contenitore che provenga da una filiera industriale: il sacchetto del detersivo in polvere si apre con le forbici ed è impossibile richiuderlo perché la plastica si fende spargendo metà del contenuto in terra. Le bustine del tè vanno aperte a morsi. Chiusure amichevoli come il velcro, la zigrinatura, la colla che attacca ma si stacca – sono ancora ignote: non c’è abbastanza concorrenza, o abbastanza smercio, perché abbia senso investire su questi aspetti del prodotto. Vi sentirete stranieri, proverete una terribile nostalgia di casa mentre cercherete di scassinare una scatoletta di tonno che non ha – non vi capitava da vent’anni – l’apertura a strappo.

Mangiare? Nei tre scaffali del mini-supermercato accanto all’università ci sono soprattutto biscotti e merendine per i pochi abbienti e i pochissimi occidentali, e un banco carne in cui non si sa bene cosa pescare perché tutto ha un’aria respingente. In generale, procurarsi il cibo non è facilissimo, specie se uno non è ancora pronto a rifornirsi di carne, pane, frutta e verdura dai banchetti a bordo strada, che sono, come ci si può aspettare, lerci. E specie se è ramadan e i rari ristoranti sono chiusi a mezzogiorno, e ingolfati di gente e di poco invitanti piattoni a prezzo fisso dopo il tramonto.

Ma è così. È fine luglio, è ramadan. Alle sette di sera, migliaia di persone rispondono alla chiamata del muezzin e invadono uno dei viali che circonda il centro di Chittagong. Migliaia di inchini simultanei, migliaia di lingue che ripetono all’unisono le stesse parole in mezzo alla strada più trafficata della città. I risciò, le macchine, i tir aspettano in fila, placidi, finché la preghiera non finisce. Finché la preghiera non finisce c’è pace.

Fine. Qui la prima parte.

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