23 settembre 2016 16:35

“Sono un quarantenne in cerca di emozioni forti”, dice una voce distorta da autotune nella prima parte di barbarians, lo spettacolo del coreografo angloisraeliano Hofesh Shechter che ha aperto ufficialmente il Romaeuropa festival al teatro Argentina di Roma il 21 settembre. “Avrei potuto comprarmi un macchinone e trasformarmi in un cliché ambulante”, continua la voce robotica. E invece… invece cerco di creare una coreografia, provo a raccontare con la danza e la musica cosa mi sta succedendo.

barbarians è uno spettacolo diviso in tre parti: the barbarians in love (i barbari innamorati), tHE bAD (occhio alle maiuscole che formano la parola head, testa) eTwo completely different angles of the same fucking thing (due punti di vista completamente diversi sulla stessa cazzo di cosa).

Nell’intervista che leggiamo nel programma di sala, Hofesh Shechter dice che “lo spettacolo prova a spiegare se stesso ma fallisce costantemente. È ovvio, nulla di ciò che succede sulla scena può essere spiegato… ognuno è libero di avere la propria interpretazione”. In realtà Shechter spiega cosa succede eccome, forse anche con troppi dettagli. Il (lungo) dialogo tra le due voci robotiche nella prima parte dello spettacolo è una specie di prologo in cui il coreografo confessa la propria crisi di mezza età, il proprio sdoppiamento. Quello che dice è molto personale, quasi imbarazzante, e la distorsione elettronica delle voci sembra un artificio dietro cui nascondersi.

Il desiderio in scena
barbarians mette in scena un corpo che si guarda allo specchio e non si riconosce più, un corpo che goffamente cerca le parole, che nella danza sono i movimenti, per rappresentarsi e raccontarsi. La danza di Shechter, già nota per essere eclettica e frammentaria, qui sembra andare in mille pezzi tra interferenze, false partenze, tic e distorsioni. Se siamo abituati a vedere nella danza un linguaggio, fatto di lettere-gesto e parole-movimento, in barbarians sembra che qualcuno abbia svuotato violentemente sul palcoscenico tutto il sacchetto dello Scarabeo.

La musica, in buona parte suonata e mixata dallo stesso Shechter, è monolitica, violenta, ruvida e a tratti anche volgare. La musica in sé è uno degli elementi più emozionanti e fisici dello spettacolo: mescola elettronica, ronzii industriali, distorsioni, il compositore barocco François Couperin, consort music elisabettiana e anche Pussy crook, un groove grottescamente fallocentrico del rapper di New Orleans Mystical.

barbarians


I passaggi dall’elettronica alla musica antica sono fluidi e suggestivi e hanno quella nitidezza narrativa che in vari punti dello spettacolo sembra mancare alla danza, soprattutto negli ensemble che si susseguono un po’ prolissi nella parte centrale.

barbarians annaspa, cerca le parole, i gesti, ed è uno spettacolo in cui l’incoerenza ha sicuramente una sua valenza poetica. È anche una messa in scena del desiderio, una riflessione sulla libido maschile che per un ventenne è correre incontro alla vita e per un quarantenne diventa sempre di più correre dietro alla vita.

A metà spettacolo un danzatore si rivolge direttamente al pubblico. “La conoscete questa canzone?”, dice. E inizia a canticchiare in un italiano zoppicante Vita spericolata di Vasco Rossi. Il pubblico all’inizio è attonito, poi si lascia andare e canta in coro questa vecchia canzone che si trasforma facilmente, in questo contesto, in un inno un po’ patetico alla crisi del maschio di mezza età. “Voglio una vita che non è mai tardi, di quelle che non dormono mai, voglio una vita di quelle che non si sa mai”.

Il duetto che va in scena nella terza parte è forse il momento di maggior nitidezza. Due straordinari danzatori, Frédéric Despierre (con addosso dei lederhosen bavaresi difficilmente spiegabili) e Yeji Kim, ci accompagnano in un territorio più sicuro e più facilmente decodificabile come teatro danza. Con i loro movimenti impacciati, teneri, sensuali e via via sempre più nevrotici, provano a mettere la parola fine a un flusso di coscienza che fine non può avere.

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