03 aprile 2017 18:08

Art record covers di Francesco Spampinato è un grande volume edito dalla Taschen con circa 500 copertine di dischi immaginate, progettate e realizzate da artisti visivi. La cosa che rende questo libro un punto di riferimento è che non si tratta un semplice catalogo di belle immagini, o di immagini “iconiche”, come spesso si dice oggi, quasi sempre a sproposito. Spampinato indaga a fondo nel rapporto tra musica e arti visive, sia nel ricco apparato di interviste che apre il libro sia nelle asciutte ma dettagliate didascalie che accompagnano ogni copertina.

Spampinato è uno storico dell’arte, Phd alla Sorbonne Nouvelle di Parigi e già professore associato alla Rhode Island school of design. Ma è anche un fan e, si evince dalla maniacalità delle informazioni che ha raccolto, un collezionista, quello che nel gergo dei dj viene chiamato un crate digger, un ravanatore instancabile di negozi di dischi, scantinati e mercatini. Art record covers riesce a coniugare il rigore scientifico dello storico dell’arte con l’entusiasmo del collezionista. Spampinato è a suo agio sia nel descrivere le scene musicali e i generi più disparati, sia nell’analizzare stili, tecniche e pratiche dei 270 artisti che prende in esame.

Perché un lp si chiama album? Prima del 1948, anno in cui si sono affacciati sul mercato i primi long playing a 33 1/3 giri al minuto, un album era un raccoglitore con dentro diversi dischi a 78 giri. E si presentava quasi sempre in modo abbastanza anonimo, come un album, appunto, di fotografie. L’attenzione era tutta sulla musica e la funzione dell’album era da una parte quella di proteggere i fragilissimi dischi e dall’altra di ospitare note di produzione, parole delle canzoni o libretti d’opera.

The Command All-Stars, Persuasive percussion volume 3, 1960. L’illustrazione di copertina è di Josef Albers.

Con l’arrivo del long playing e la diffusione dei giradischi, l’album è diventato un oggetto più maneggevole, più economico e più facile da produrre e da riprodurre in tanti esemplari. Era necessario dunque “vestirlo”. La funzione della copertina raccoglitore non sussisteva più e, dalla fine degli anni quaranta in poi, la copertina di un album è diventata parte integrante della musica, la descriveva prima ancora che l’acquirente scartasse il disco e lo mettesse sul piatto.

Giustamente Spampinato ricorda, nell’introduzione, la figura fondamentale di Alex Steinweiss, l’illustratore che di fatto ha inventato le copertine dei dischi e a cui Taschen ha dedicato, anni fa, un imponente volume. Steinweiss era un illustratore, un artista commerciale direbbe qualcuno, eppure è difficile, scorrendo la sua produzione di una vita, non innamorarsi di quel lavoro certosino di lettering, impaginazione, collage e assemblaggio. Con piglio modernista e un occhio da grafico pubblicitario, ma anche da vero artista, riusciva a “disegnare” la musica jazz, il pop, la classica e la lirica. Le sue copertine fanno venire voglia di immergersi nella musica sperando di ritrovarci quelle forme, quei colori e quella grazia leggera e gentile.

Era ovvio dunque che chiunque lavorasse nell’arte, dagli anni cinquanta in poi, avesse voglia di misurarsi con le copertine dei dischi. C’era chi lo faceva con finalità più o meno commerciali (Il Dalí superstar del 1955 che si è divertito a illustrare la copertina di un album easy listening di Jackie Gleason) o chi, come Josef Albers, esponente storico del Bauhaus, la prendeva dal lato del design e del funzionalismo. Per gli artisti pop realizzare la copertina di un album era quasi un obbligo: per Andy Warhol i Velvet Underground erano molto di più della famosa banana gialla del loro album di debutto: erano, nel suo canone, la cosa più vicina a un Gesamtkunstwerk, un’opera d’arte totale. Il memorabile collage per la copertina di Sgt. Pepper’s lonely hearts club band dei Beatles (1968), realizzato dall’artista inglese Peter Blake insieme alla moglie Jann Haworth, parla la stessa lingua pop caleidoscopica e psichedelica delle canzoni del disco. È difficile separare i pezzi di quell’album da quel collage che, tra le altre cose, potrebbe sembrare un ideale anello di congiunzione tra surrealismo e pop art britannica.

Kanye West, Graduation, 2007. L’illustrazione di copertina è di Takashi Murakami.

Sfogliando Art record covers si rimane colpiti da come, dagli anni cinquanta al 2017, questo dialogo tra artisti e musicisti sia stato sempre vitale e pieno di cortocircuiti inattesi. Negli anni ottanta avere una copertina realizzata da Francesco Clemente poteva essere uno status symbol per il Mick Jagger di Primitive cool (1987). Oppure un determinato artista poteva veicolare con il suo segno un messaggio sociale molto chiaro, come Keith Haring nelle copertine di A very special Christmas, una serie di compilation di beneficenza per la ricerca sull’aids. I Red Hot Chili Peppers hanno usato Julian Schnabel (By the way, 2002) e Damien Hirst (I’m with you, 2011), i Metallica hanno scelto le foto astratte realizzate con sangue e sperma di Andres Serrano per rendere ancora più estremo il messaggio del loro album Load del 1996. Fino ad arrivare al rapporto empatico che il rapper Kanye West ha avuto con gli artisti che hanno realizzato le sue memorabili copertine: dal giapponese Takashi Murakami (Graduation, 2007) allo statunitense George Condo, che ha creato una disturbante copertina neoespressionista per My beautiful dark twisted fantasy (2010).

Il libro di Spampinato ci lascia con una certezza: le copertine dei dischi continueranno a essere un parco giochi per gli artisti visivi. Qualunque cosa significhi oggi la parola album, musica e immagine continueranno a ibridarsi e a dialogare.

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