25 gennaio 2020 10:01

Il giorno di Natale, mentre l’Australia bruciava, l’ufficio per la promozione turistica diffondeva nel Regno Unito, subito prima del discorso della regina, un video pubblicitario in cui la popstar Kylie Minogue e il presentatore televisivo Adam Hills, i due volti più conosciuti del paese, presentano le meraviglie dell’Australia ai potenziali turisti britannici.

“Parliamo come voi… tranne che per le vocali”, scherzano, e saltellano tra spiagge tropicali, paesaggi desertici, pub, barbecue e partite di cricket. Anche quando l’Australia cerca di mostrare il suo lato migliore si ha sempre l’impressione che qualcosa non vada, che l’equazione non torni. Il video di Matesong, la canzone degli amici, in cui due famosi australiani ironizzano sui complessi d’inferiorità del loro paese con la madrepatria, mostra lo stato-continente come un paradiso fondamentalmente bianco.

Bianchi sono i giocatori di cricket, i surfisti e i nudisti (opportunamente pixelati) alla spiaggia; bianchi sono i tifosi allo stadio e i vacanzieri che fanno yoga sulla spiaggia. E bianche, bianchissime, sono ovviamente le nostre guide: Kylie e Adam Hills. Compare qualche aborigeno qua e là: due anziani capi e un paio di comici noti al pubblico televisivo australiano, ma le loro sono proprio comparsate-lampo. Una quota dovuta, perché dal 1975, anno in cui è stato approvato il Racial discrimination act, l’apartheid, perché di apartheid si poteva parlare, è stato formalmente abolito. È ovvio che un video pubblicitario non sia il luogo più adatto per discutere il genocidio degli aborigeni o il razzismo endemico, eppure dà un’idea di come l’Australia ami presentarsi all’estero, soprattutto nel salotto buono della tv britannica.

La mostra Australia. Storie dagli antipodi, curata da Eugenio Viola al Pac di Milano fino al 9 febbraio, ci mostra una realtà completamente diversa. Viola, già curatore del Pica (Perth Institute of contemporary arts, in Australia), ha messo insieme la più vasta ricognizione di arte contemporanea australiana al di fuori del continente, mostrandoci una sorprendente varietà di pratiche, espressioni e stili provenienti dalla più insulare, autoreferenziale e periferica scena artistica del mondo.

La mostra Australia. Storie dagli antipodi al Pac, Milano. (Nico Covre)

L’arte australiana è sempre stata, nella migliore tradizione della madrepatria, un’arte di paesaggio. I paesaggisti a cavallo tra ottocento e novecento avevano un territorio immenso da conquistare attraverso la rappresentazione. Una natura magnifica, ostile, gigantesca, da cui molto spesso mancava l’uomo, in particolare il nativo. La cancellazione degli aborigeni, dei loro corpi e della loro memoria avveniva anche nella pittura di paesaggio, oltre che nella violenta pratica coloniale. L’Australia era Terra nullius, terra di nessuno, un territorio sconfinato da dominare e da sfruttare.

Proprio dal territorio, dalla natura e dal paesaggio nascono la maggior parte delle opere in mostra al Pac. Ma il punto di vista oggi è capovolto. Tra i 32 artisti in mostra, il cinquanta per cento appartiene a varie etnie aborigene e in genere, bianchi o aborigeni che siano, gli artisti selezionati raccontano la grande diversità etnica, culturale e religiosa del continente australiano.

Tra i pionieri della performance e della body art australiana vediamo Jill Orr e Mike Parr. Entrambi usano il loro corpo come metafora del territorio. In Bleeding trees (1979), Orr si fa fotografare nuda tra gli alberi. Il suo corpo è contorto, torturato, appeso come venivano appesi dai coloni gli aborigeni ribelli. Anche il lavoro di Parr ha a che fare con gli alberi. Nel 1975 inscena una performance in cui con il carbone degli alberi bruciati si segna le costole di nero, secondo la tradizione del popolo murri. Gli alberi bruciati non sono una novità in Australia, il territorio era talmente immenso che i coloni lo bruciavano di proposito fin dal settecento: gli incendi erano il modo migliore e più efficace per togliere ai nativi la loro terra.

La mostra Australia. Storie dagli antipodi al Pac, Milano. (Nico Covre)

Il lavoro di Nyapanyapa Yunupingu, un’artista proveniente da una remota comunità aborigena, torna sul tema degli alberi che, anticamente, venivano anche scavati e usati come sepoltura. Usando tecniche e materiali moderni decora dei tronchi e li usa come pagina bianca per raccontare delle storie. Il suo lavoro, visto oggi, mentre le foreste australiane bruciano ancora, è forse la metafora più forte di un paese che continua a rimuovere il suo passato.

La xenofobia dell’Australia di oggi è al centro del lavoro di diversi artisti. Judy Watson dipinge su motivi astratti una mappa dell’Australia e ricama, con l’aiuto della madre e della nonna, tre punti scuri in mezzo al mare: sono i tre centri di detenzione extraterritoriali per migranti irregolari, Christmas Island, Manus e Nauru. Watson usa tecniche tradizionalmente femminili come il ricamo o la tintura dei tessuti per raccontare quello che da noi Matteo Salvini chiama “modello australiano” della gestione delle migrazioni via mare.

Di “modello australiano” parla anche Fiona Hall, che con Lay me down (2019) dissemina un’ampia superficie grigio-verde di scheletri fatti a pezzi. Avvicinandosi all’installazione si nota che questi scheletri sono stati dipinti su bottiglie di vetro rotte. Un cimitero di cocci per parlare del genocidio dei migranti in mare.

Australia. Storie dagli antipodi è una mostra potente e inattesa che racconta le lacerazioni e le sacche di resistenza di un paese che ci sembra ancora lontanissimo ma che è più vicino di quanto crediamo. Stupisce solo fino a un certo punto notare che tra i patrocinatori e gli sponsor della mostra manchi qualunque istituzione australiana.

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