25 gennaio 2021 12:33

Phyllis Hyman (1949-1995) è una grande voce dimenticata del soul. Fu soprannominata “Goddess of love”, dea dell’amore, per la morbidezza e la sensualità del suo timbro. È stata però una dea dell’amore che è morta suicida nel 1995 proprio per mancanza di amore. Le era stato diagnosticato, probabilmente troppo tardi, un disturbo bipolare e ha passato buona parte della vita a combattere con depressione, dipendenze, relazioni tossiche e con un ambiente musicale che non la capiva. Il suo talento, la sua classe e il suo carisma erano innegabili ma Hyman era considerata un’artista “difficile”.

A essere davvero difficili invece erano gli anni in cui viveva. Il critico musicale Nelson George nel libro The death of rhythm’n’blues (“La morte del rhythm’n’blues”) racconta l’ambiente in cui si muovevano gli artisti afroamericani a metà degli anni ottanta. Fino alla fine degli anni settanta i mercati musicali erano rigidamente segregati: neri con neri e bianchi con bianchi; nelle radio, nel circuito della musica dal vivo, perfino nei negozi di dischi. Non era una segregazione dichiarata, era una prassi consolidata. La situazione è cambiata dopo il grande successo pop di Michael Jackson e di Prince e dopo l’arrivo di Mtv, che ha tolto pubblico giovane alle radio statunitensi. Dal 1984 in poi la parola d’ordine è diventata crossover. Ovvero gli artisti neri dovevano riuscire a piacere ai bianchi, a qualunque costo. E la musica nera, spiega Nelson George, è diventata ostaggio di produttori che promettevano a tutti il miraggio del crossover, di farcela nel mercato dei bianchi. È inutile dire che è stato un gioco al massacro che ha premiato pochissimi artisti.

Patrick Bateman, lo yuppie serial killer protagonista di American psycho di Bret Easton Ellis, ovviamente bianchissimo, ascoltava ossessivamente il cd di Whitney Houston, l’incarnazione del crossover come status symbol: un’impeccabile interprete soul con il corpo e il viso di una modella. A differenza della giovanissima Whitney, che era stata plasmata per piacere a livello globale, Phyllis Hyman era già segnata dalla sua storia ed è rimasta intrappolata nell’intercapedine tra due generazioni. Quando usciva con un pezzo dance era considerata disco, quindi roba vecchia; quando usciva con una ballad era considerata una torch singer per un pubblico maturo. Nel 1983 aveva cantato il tema per il film di James Bond Never say never again. Un pezzo di bravura che lei aveva inciso, come spesso era sua abitudine, in una sola take. Per complicate ragioni contrattuali quel pezzo non uscì mai e per il film fu usata un’altra canzone.

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Living all alone, il settimo album di Phyllis Hyman, esce nel 1986, l’anno in cui alla radio e su Mtv passano solo Kiss di Prince e Greatest love of all di Whitney Houston. E, sfortuna delle sfortune, nel 1986 esce anche Rapture di Anita Baker, che pur muovendosi in un territorio soul-jazz adulto simile a quello di Hyman, satura quel mercato, soprattutto in Europa. Eppure Living all alone è un grande album che meritava di essere ascoltato e amato. Gli arrangiamenti e la produzione hanno tutti i difetti di quegli anni, ma la voce di Hyman e la sua scelta dei pezzi ne fanno una specie di testamento spirituale. È un disco che, nonostante il poco successo che ha avuto, ha lasciato il segno: If you want me, per esempio, è parente molto stretta di Honey di Mariah Carey e diversi pezzi di questo album sono stati campionati da artisti e produttori hip hop negli ultimi trent’anni.

Il tema centrale di Living all alone è il rimpianto e non è difficile immaginare che il grande amore che l’ha lasciata “a vivere tutta sola” non sia una persona ma la musica stessa, da cui negli ultimi anni lei si è sentita tradita. Phyllis Hyman è un’incantatrice ma non è una seduttrice, è una dea dell’amore e non ha bisogno di elemosinare l’attenzione con inutili virtuosismi. La sua voce di contralto emana autorevolezza, si adagia sulle canzoni e le accarezza. “Phyllis Hyman non è la ragazza della porta accanto, è una presenza”, diceva di lei Nelson George. Ed è proprio la sua presenza che ancora oggi mette i brividi.

Phyllis Hyman
Living all alone
Philadelphia International/Capitol, 1986

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