15 febbraio 2021 12:29

Ogni volta che cantava
attraversava il mare.
Dal Bronx
tornava a Cuba.
Sospinta dalle vele
di una canzone

Così scriveva il poeta portoricano Victor Hernández Cruz descrivendo la figura leggendaria della Lupe, eroina dei due mondi della musica afrocubana. La Lupe, La Yiyiyi o semplicemente La Reina erano i nomi con cui Guadalupe Victoria Yolí Raymond (1936-1992) era nota al suo pubblico adorante. Nata a San Pedrito, un minuscolo sobborgo di Santiago de Cuba, diventa molto presto una star della decadente vita notturna dell’Avana degli anni cinquanta. È famosa per le sue performance frenetiche in cui sembra cadere in trance: canta soprattutto bolero, son montuno e boogaloo e spinge la sua band ad andare sempre più veloce. Arriva a prendere a scarpate il pianista per farlo correre di più, lo sprona come un cavallo, mentre percussionisti e fiati faticano a stargli dietro. La Lupe diventa una beniamina degli expat della Cuba di Fulgencio Batista: da Ernest Hemingway a Marlon Brando. Per i ricchi bianchi la sua fisicità sul palco ha qualcosa di primitivo, di esotico e di proibito, e La Lupe diventa un’attrazione della Cuba prerivoluzionaria in cui il rum scorre a fiumi e il jazz statunitense si ibrida con la tradizione afrocubana. Dopo la rivoluzione La Lupe emigra prima in Messico poi a New York. Dice di essere stata esiliata, ma in realtà segue il suo pubblico.

La Lupe è una pioniera anche in questo: ha un rapporto quasi medianico con quello che lei chiama il “suo” pubblico. Prima ancora che esistesse il concetto di icona gay, lei sapeva di esserlo; sa bene di piacere ai maschi gay, bianchi o neri che siano, perché canta canzoni da donna con la forza, la spavalderia e i muscoli di un uomo. Quando urla sul palco proietta quei sentimenti, quei desideri, che un cubano o un americano gay degli anni cinquanta non osano neanche immaginare.
A New York La Lupe canta con Tito Puente e Mongo Santamaría e s’impadronisce di standard come My way o America (dal musical West Side story) e li ricanta con la sua voce roca e il suo inconfondibile accento cubano.

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Reina de la canción latina è un album tardo, ma la vede al culmine della sua popolarità nordamericana e della sua capacità di padroneggiare tutti i generi e gli stili tropicali. Di lì a poco sarebbe cominciata la sua inesorabile parabola discendente, ma quando canta un classico come La Tirana è La Lupe al massimo del suo sgangherato, eccessivo splendore. Fever è la sua versione “boogaloo” del classico di Peggy Lee. La Lupe prende uno standard bianco garbatamente sensuale degli anni cinquanta e lo trasforma in uno sfacciato mambo cantato in “spanglish”, pieno di risate e gridolini. Gli anni settanta avrebbero visto la sua carriera finire ingloriosamente e negli anni ottanta La Lupe si sarebbe definitivamente ritirata per ragioni religiose. In un video amatoriale di fine anni ottanta la vediamo predicare e cantare in una chiesa evangelica del Bronx, il suo carisma ancora intatto, nonostante la povertà e i gravi problemi di salute.

La Lupe muore a New York nel 1992, a soli 56 anni, per un attacco cardiaco, ma continua a vivere le sue mille reincarnazioni che vanno dal pop latino più mainstream di Gloria Estefan, fino all’rnb panamericano di Kali Uchis, passando per le esibizioni della drag queen Nina Flowers nel talent show RuPaul’s drag race.

La Lupe
Reina de la canción latina
Concord, 1967

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