28 giugno 2021 12:13

Estate 1998: il Regno Unito era all’apice di quell’operazione di marketing politico-culturale legata al primo ministro Tony Blair nota come Cool Britannia. La fase terminale del britpop s’impastava allegramente con il successo planetario delle Spice Girls e alla radio si sentiva solo Things can only get better degli irlandesi D:Ream, l’inno ufficiale del New Labour alle elezioni del 1997. L’immagine del Regno Unito non era mai stata così ottimista, così giovanile e così forzatamente allegra: la finale dell’Eurovision song contest del 1998 si tenne a Birmingham e fu segnata dalla storica vittoria della cantante trans israeliana Dana International. In quest’atmosfera di gaia allegria e di sfrenato ottimismo, uno sconosciuto terzetto indie rock fa uscire un singolo intitolato Child psychology in cui, nel primo verso, si parla di una bambina che a sei anni decide di smettere di parlare. La cantante più che cantare parla, sembra in trance, e quando canta lo fa solo per intonare un lugubre ritornello: “La vita è ingiusta, ammazzati o fattene una ragione”. Non siamo esattamente nello Spice World.

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I Black Box Recorder sono uno strano terzetto composto da Luke Haines (già leader degli Auteurs, una spigolosa band britpop che con il britpop non ha mai voluto avere nulla a che fare), John Moore (già batterista dei Jesus and Mary Chain) e Sarah Nixey, enigmatica cantante “dalla bellezza preraffaellita” (sono parole di Moore, che poi la sposerà).

Child psychology va ovviamente malissimo e a peggiorare le cose, quando viene tentato un lancio negli Stati Uniti, con tempismo perfetto arriva il massacro di Columbine. In quel momento le radio americane non hanno certo voglia di programmare una lugubre canzone britannica che parla d’incomunicabilità e suicidio; una piccola, malvagia canzone pop ispirata al Tamburo di latta di Günter Grass e a Is that all there is? di Peggy Lee.

Eppure l’etichetta dei Black Box Recorder, la Chrysalis, crede in loro e gli finanzia un intero album. E così, nel luglio del 1998, esce England made me (“L’Inghilterra mi ha fatto”), una raccolta di canzoni pop claustrofobiche che esplorano gli anfratti più sgradevoli della psiche nazionale britannica. Il titolo dell’album è lo stesso di un romanzo del 1935 di Graham Greene (I naufraghi nella traduzione italiana), una storia di menzogne, di tradimenti incrociati e di doppie vite.

E anche la copertina colpisce: è un ritratto del lottatore Adrian Street, in alta uniforme da glam rocker, accanto al padre lavoratore in una miniera di carbone del Galles. Dietro di loro, che stanno in posa come due nobiluomini elisabettiani, gli altri minatori, neri di fuliggine dietro le sbarre del montacarichi che li ha appena riportati in superficie.

England made me, la canzone che dà il titolo all’album è la chiave di volta di tutto. Il verso iniziale, cantato con dizione perfetta e tono impassibile da Sarah Nixey recita:

“Ho intrappolato un ragno sotto un bicchiere,
L’ho tenuto lì per una settimana per vedere quanto durava,
Lui mi guardava,
Pensava di vincere lui,
Abbiamo aspettato,
E lui credeva che avrei ceduto”

E invece non cederà. L’io narrante della canzone continua la sua esplorazione di quello spirito di sopraffazione così squisitamente britannico: il cadavere di un estraneo ucciso per divertimento e poi nascosto nel portabagagli di un’auto, un caso irrisolto, perché tutto sommato “alla gente piacciono i gialli”. E poi la stoccata finale: “Ho bisogno della mia privacy, ho una doppia vita, vado a letto con il nemico e poi tradisco entrambe le parti”.

Neanche Lana Del Rey, il cui modo di cantare somiglia sbalorditivamente a quello di Nixey, è stata così chirurgica nel sezionare la contorta psicologia californiana del nuovo millennio. C’è una parola che descrive quel modo di cantare: deadpan. In italiano potremmo tradurlo con “impassibile” ma non è del tutto corretto. Deadpan (che viene da dead, morto, e pan, padella che nel gergo popolare vuol dire anche faccia) indica quell’impassibilità a metà strada tra il distacco professionale di un medico che deve dirti che hai un male incurabile e i tempi comici di certo umorismo macabro. Sarah Nixey è cintura nera di deadpan.

Nell’album c’è anche la cover di un allegro pezzo reggae della fine degli anni settanta, Uptown top ranking di Althea & Donna. Luke Haines nel suo libro Post everything: outsider rock n roll descrive cosa hanno fatto i Black Box Recorder di quella deliziosa hit estiva tropicale. “Uptown top ranking è, nella sua forma originale, felicità allo stato puro, e qualunque ragazzino degli anni settanta lo potrebbe confermare”, scrive Haines. “Una volta che i Black Box Recorder ci sono passati sopra sembra che sia stata fottuta con un sedativo per elefanti (…). Siamo davvero degli alchimisti del male: ci date il sole e noi vi restituiamo solo puro nichilismo”.

La prossima volta che vi chiedete come abbia fatto a vincere la Brexit nel Regno Unito mettete su questo piccolo, cinico, dimenticato album post britpop. Molte cose vi saranno più chiare.

Black Box Recorder
England made me
Chrysalis, 1998

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