27 settembre 2021 12:28

Qualche tempo fa, quando sono usciti due nuovi pezzi degli Abba (I still have faith in you e Don’t shut me down) ho avuto l’impressione che suonassero vecchissimi. In realtà, riascoltandoli con calma, non sono riconducibili a nessun periodo specifico della lunga carriera del gruppo pop svedese. Somigliano più che altro alla produzione tarda di Benny Andersson e Björn Ulvaeus, quella dei musical come Chess e Kristina från Duvemåla. In quelle produzioni, pensate più per il teatro che per il mercato della musica pop, Andersson e Ulvaeus hanno affinato la loro già notevole capacità autoriale rendendo evidente la loro derivazione dal filone più nobile del lied svedese.

Se al pubblico fuori dalla Svezia gli Abba possono sembrare un souvenir un po’ kitsch di tanti Eurovision fa, nel loro paese sono giustamente considerati un tesoro nazionale e nessuno si permette di trattarli come un pezzo di modernariato da leggere solo attraverso la lente dell’ironia. Il museo degli Abba a Stoccolma si trova a poche centinaia di metri dal Vasa Museet, dove è conservato, tutto intero, un galeone del seicento, simbolo dell’aggressiva potenza marinara e commerciale del paese scandinavo. Navi da guerra come il Vasa salpavano dalla baia di Stoccolma per conquistare il mondo, e allo stesso modo Björn, Benny, Agnetha e Frida sono partiti dalla periferia più fredda dell’impero alla conquista del mercato pop globale. E lo hanno fatto con canzoni che erano semplici solo in apparenza, basate su melodie la cui facilità nascondeva grande sapienza artigianale. E soprattutto hanno conquistato il mondo con un aspetto che era molto poco cool anche nella metà degli anni settanta, un look che, mentre nel Regno Unito impazzava il glam rock e ci si preparava al punk, rimandava a un immaginario un po’ vetusto da socialdemocrazia scandinava, tra discutibili acconciature e abiti più da circo che da discoteca alla moda.

È inevitabile quindi che in Svezia gli Abba siano considerati un’istituzione ed è stato inevitabile che la più grande cantante lirica svedese degli ultimi decenni, Anne Sofie von Otter, decidesse, nel 2006, di incidere il suo omaggio agli Abba.
Von Otter, un mezzosoprano di grande versatilità e intelligenza, è diventata famosa nei teatri di tutto il mondo cantando Mozart, Händel e Strauss ma, in parallelo, ha una lunga carriera di interprete di lieder, ovvero di uno sconfinato repertorio di canzoni che va da Franz Schubert a Kurt Weill, da Erich Wolfgang Korngold alle melodie tradizionali scandinave. Von Otter, abituata alla varietà del suo repertorio liederistico, non si avvicina alla cosiddetta musica leggera per scherzo o per un puro gesto camp (come fece Montserrat Caballé con Freddie Mercury tanto per fare un esempio), ma lo fa in modo rispettoso, da vera conoscitrice della forma canzone. E la sua incursione nel repertorio degli Abba era stata preceduta da un bell’album d’inediti realizzato con Elvis Costello (For the stars, 2001) ed è stata seguita da un ciclo di canzoni d’amore composte per lei dal pianista Brad Mehldau (Love songs, 2010). Quello tra Anne Sofie Von Otter e gli Abba è l’incontro tra due mostri sacri svedesi e una celebrazione di quel gusto tipicamente scandinavo per una melodia incantevole e ingannevole, capace di essere allegra e malinconica allo stesso tempo. Una caratteristica tipica delle migliori canzoni non solo degli Abba, ma anche degli A-ha, dei Cardigans e di Robyn.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

I let the music speak non fa l’errore di tuffare le mani nel repertorio più scontato degli Abba: niente Mamma mia! e niente Chiquitita, anche se, se solo Von Otter avesse avuto voglia di sbracare un po’, una rilettura in stile habanera di quest’ultima sarebbe stata una mossa geniale. Benny Andersson suona il piano e arrangia i pezzi in modo da farne emergere al massimo la limpidezza melodica e la vocazione teatrale. C’è molta enfasi sui pezzi scritti per i musical e sulle canzoni degli Abba più sofisticate come la splendida The day before you came e la più famosa The winner takes it all. Notevoli sono anche i due pezzi cantati in svedese, Ljusa kvällar om våren e Ut mot ett hav, e una reinvenzione di Money, money, money che sembra uscita da un musical americano di Kurt Weill.

Questo album è reso prezioso anche dal suo principale difetto: l’estrema cautela e precisione con cui Anne Sofie von Otter affronta il repertorio degli Abba. Con l’unica eccezione di Money, money, money, in cui l’interprete sembra davvero divertirsi, nella maggior parte dei pezzi usa la voce e l’intonazione con precisione chirurgica: riesce a dare un nitore quasi eccessivo a certi passaggi che cantati da Agnetha e Frida scorrevano con spensierata nonchalance. La voce di Von Otter dà a volte la straniante, ma tutto sommato non spiacevole sensazione di sentire le canzoni degli Abba ad altissima definizione: come certe tv che ti fanno vedere anche il più minuscolo dei foruncoli sulla fronte di un attore.

Anne Sofie von Otter
I let the music speak
Deutsche Grammophon, 2006

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it