Quincy Delight Jones Jr è morto a Los Angeles, negli Stati Uniti, il 3 novembre all’età di 91 anni. Nella sua vita è stato arrangiatore, compositore, musicista e produttore televisivo. Soprattutto però è stato un produttore musicale: si può dire che la professione del produttore come la concepiamo oggi l’abbia inventata lui. Se oggi un buon produttore è un musicista che mette a punto un suono, uno psicologo che capisce gli artisti con cui ha che fare, un manager a suo agio nel business e un sismografo sensibilissimo della contemporaneità, è perché per più di settant’anni a fare questo lavoro ai massimi livelli c’è stato Quincy Jones.

Jones nasce il 14 marzo del 1933 sotto il segno dei Pesci. Questa non è una considerazione marginale, perché per tutta la vita è ossessionato dall’astrologia e molte sue scelte professionali e forse anche personali sono dettate da astruse considerazioni astrali.

Nella sua autobiografia Q (uscita senza troppo successo nell’ottobre 2001, all’indomani degli attentati dell’11 settembre), Jones descrive dettagli terribili della sua vita di bambino negli Stati Uniti della grande depressione. Sua madre Sarah era una donna colta e intelligente con gravi disturbi psichici che un brutto giorno fu portata via di casa in una camicia di forza. Negli anni trenta i manicomi non erano dei bei posti e lo erano ancora meno per i pazienti neri. La bisnonna di Quincy Jones per parte paterna era stata una schiava in Louisiana e anche questa è una notazione che Jones ci tiene a fare all’inizio del libro: il razzismo, l’ingiustizia e la disuguaglianza li scopre e li riconosce con estrema lucidità fin dall’infanzia.

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Anche nelle sue più recenti interviste Jones non fa che ricordare che il razzismo è stata la grande piaga sociale degli Stati Uniti e che la schiavitù è stato il peccato originale che il suo paese non ha mai davvero voluto espiare. Quando nel 1977 compone la musica per il primo episodio della miniserie televisiva Radici, una saga di grande successo che comincia con la tratta degli schiavi in Gambia nel 1750 e finisce negli Stati Uniti con la fine della guerra civile, Jones la affronta come se fosse una suite sulle origini profonde della musica afroamericana. Non c’è neanche un ombra di jazz nella musica che compone per Radici, ma un’appassionata rilettura di musiche tradizionali africane e della loro introduzione segreta nella coscienza dei neri d’America.

Eppure il jazz, il be-bop della fine degli anni quaranta, è la musica che fa di lui un professionista e lo sottrae al meccanismo disumanizzante dei ghetti neri di Chicago in cui stava crescendo. Da bambino voleva fare il gangster perché sembrava essere l’unica carriera possibile per lui ma da ragazzo la musica gli dà un riscatto sociale che mai avrebbe avuto altrimenti. Quando nel 1991 Quincy Jones convince Miles Davis a rivisitare con lui la sua grande musica degli anni cinquanta (quella manciata di album epocali arrangiati da Gil Evans) al festival di Montreux dietro c’è anche un grande amore per il jazz e il be-bop, e attraverso un divo come Miles Davis vuole innalzare un ultimo, imponente monumento alla musica salvifica della sua giovinezza.

Davis non voleva tornare sulla sua musica vecchia, ma Quincy Jones ha insistito talmente che alla fine ha dovuto cedere. Da quelle registrazioni viene tratto l’album Miles & Quincy live at Montreux che esce nel 1993, dopo la morte di Davis. Quincy Jones aveva il carisma, la cultura musicale e i modi decisi (vagamente da gangster, per la verità) per riuscire a convincere anche un artista tanto leggendario quanto impossibile come Miles Davis a piegarsi alla sua visione.

L’anello di Sinatra

Quincy Jones compone la sua musica, ma alla fine degli anni cinquanta si impone come arrangiatore e band leader. E anche allora ha una visione chiara: sa come la musica deve suonare per piacere, per sedurre e per avere successo. Riascoltate Vaughan with violins, un album del 1959 della grandissima cantante jazz Sarah Vaughan. E in particolare Misty, che per la cantante diventò una signature song, una canzone-firma. Gli arrangiamenti orchestrali di Quincy Jones sono fastosi e proiettano la voce di Sarah Vaughan lontanissimo dai fumosi locali jazz in cui si era formata: la trasfigurano in una sorta di fascinosa, sensuale sirena hollywoodiana.

I confini già labili tra jazz vocale e pop sofisticato si fanno ancora più sfumati e il canto di Vaughan è purissimo, universale, senza alcuna connotazione storica o razziale. Oggi sentire cantare Sarah Vaughan in questo modo ci sembra un’ovvietà, ma non lo era nell’industria musicale profondamente razzializzata dell’America della fine degli anni cinquanta. In quegli anni poi lavora anche con Frank Sinatra (che gli regala un suo anello di famiglia) e nel 1963 con You don’t own me di Lesley Gore arrangia il suo primo, grande successo pop, un 45 giri epocale che ha fatto la storia della musica pop, un genere di cui Quincy Jones sarebbe diventato in futuro una sorta di re Mida.

Dietro la più grande popstar della storia

Jones sa che la musica è una sola, al di là di qualunque steccato di genere o di qualunque automatismo culturale o industriale. In questo senso Quincy Jones, che per tutta la vita è stato associato allo show business americano, aveva una sensibilità molto legata alle avanguardie musicali europee. Una sensibilità che ha sviluppato studiando, nella Parigi degli anni cinquanta, con la compositrice, direttrice d’orchestra e docente Nadia Boulanger (1887-1979). Boulanger era stata l’insegnante di compositori e musicisti come Philip Glass, David Barenboim, Astor Piazzolla e Aaron Copland.

“Erano i tipi più tosti quando si trattava di quel tipo di musica”, scrive Jones nella sua autobiografia. “Erano gli anni cinquanta, ricordatevelo sempre, e la classica era considerata quel tipo di musica e noi eravamo ancora solo dei ‘negri’ o dei ‘colorati’ (…)”. Nel libro Jones descrive il suo incontro con Boulanger, l’insegnante che si favoleggiava avesse rifiutato George Gershwin nonostante le fosse stato raccomandato da Maurice Ravel. E da lei impara che la musica non ha limiti, tantomeno limiti razziali. La stessa Boulanger prima di morire ha ricordato che tra tutti i grandi musicisti che lei aveva conosciuto i due che più hanno avuto influenza sulla musica del novecento erano stati Igor Stravinskij e Quincy Jones.

Nadia Boulanger moriva proprio nel 1979, l’anno in cui Quincy Jones stava lavorando al progetto che lo avrebbe reso un monumento della musica pop e un padre fondatore dell’industria musicale come la conosciamo oggi. Quel progetto era un giovane artista già molto famoso ma in piena crisi esistenziale: Michael Jackson. Producendo il suo album Off the wall Quincy Jones orchestra la nascita della più grande popstar della storia e lo fa costruendo per lui un suono che trasfigura la blackness della disco music e del soul nella purezza e nell’università del pop radiofonico più accettabile per i bianchi.

In settant’anni di carriera Quincy Jones ha avuto la capacità di conoscere, suonare e capire tutta la musica

Basta ascoltare due brani di quell’album per capire cosa avesse in mente Jones. Rock with you è un pezzo disco-funk reso diafano da un’arrangiamento orchestrale delicatissimo che ne esalta gli aspetti più melodici, soprattutto nel bridge che sfocia in un ritornello botta e risposta con i cori, che ha un andamento quasi da gospel. A fare da motore propulsore al tutto una linea di basso irresistibile che la rende perfetta per la pista da ballo e per le radio di tutto il pianeta. Rock with you è pop music pensata da una mente musicale dalle risorse inesauribili e cantata da un grande artista che sta trovando la sua vera voce. She’s out of my life è invece una ballata orchestrale molto classica e molto poco black.

Quando parte l’intro ci si aspetterebbe di sentire Barbra Streisand e invece entra la voce di questo ragazzo, un epiceno senza età, dotato di una vocalità cristallina e di un mestiere che gli permette di rompere la voce magistralmente sul finale per simulare un singhiozzo di commozione. Il lavoro di Quincy Jones con Jackson continua con gli album Thriller (1982, il disco più venduto della storia del pop) e Bad (1987) ma la sua visione rimane quella: creare un suono sempre più aggiornato per far brillare una voce e un personaggio sempre più staccato dalla realtà e proiettato in un mondo di artificio, d’illusione e di favola.

E poi c’è la scelta dei pezzi: Thriller e Bad non contengono pezzi deboli, ogni canzone è un potenziale singolo da numero uno in classifica. Il successo trasversale e senza precedenti di Michael Jackson è il frutto di una consapevolezza musicale e industriale che Quincy Jones aveva affinato fin dagli anni cinquanta. Nessuno poteva capire Michael Jackson come lui: il dramma dell’infanzia mancata, un’industria musicale razzista che lo voleva confinato in un segmento di mercato ben preciso, ma soprattutto un’ambizione divorante, un senso di rivalsa nei confronti della famiglia, della società e dell’industria che lo aveva sfruttato da quando era nato. Quincy vede tutte queste cose in Michael e le trasforma in musica pop luccicante e leggera, tanto studiata quanto popolare, tanto complessa nella messa a terra quanto semplice nella fruizione.

In settant’anni di carriera Quincy Jones ha avuto la capacità di conoscere, suonare e capire tutta la musica, dal be-bop all’hip-hop. È stato uno dei primi a capire il potenziale commerciale della musica brasiliana e a ibridarla con la tradizione jazz nordamericana: il suo album Big band bossa nova del 1962 era uscito appena sei mesi dopo il brillante Jazz samba di Stan Getz e Charlie Byrd, ma con la composizione Soul bossa nova, un enorme successo su 45 giri, aveva creato un tormentone radiofonico irresistibile: già all’inizio degli anni sessanta Quincy aveva l’abilità di guardare più avanti degli altri e anticipare i gusti di un pubblico che lui già percepiva come globale, né bianco né nero, né ricco né povero, né americano né europeo.

Nella sua autobiografia Quincy Jones ricorda una frase che un giorno gli disse l’amico Ray Charles, altro genio e demiurgo della musica americana: “Ogni genere di musica ha la sua anima, Quincy. Non importa lo stile, devi solo essere fedele alla musica”. E Quincy Jones alla musica è rimasto fedele per tutta la vita.

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