15 maggio 2008 22:14

C’è una ricerca che finora vi ho tenuto nascosta. Speravo che, se l’avessi ignorata per un po’ di tempo, alla fine l’avrei dimenticata, risparmiandovi così le sue imbarazzanti conclusioni.

Purtroppo non è successo e quindi, dato che anche gli editorialisti hanno una coscienza, mi sento ormai obbligato a farvene una sintesi. Si tratta di un’indagine, pubblicata nel 2007 sulla rivista statunitense Journalism History, sulla psicologia di 187 tra i maggiori giornalisti di tutti i tempi.

Lo studio, intitolato Depressione, alcol e sregolatezza, giungeva alla conclusione che “metà dei 187 soggetti era affetta da depressione, crisi di ansia o disturbi bipolari; più di un terzo abusava di alcol, antidepressivi o oppiacei; circa un terzo era costituito da inguaribili dongiovanni e una buona percentuale da prepotenti, misogini o ninfomani”.

Ora lo sapete. Per attenuare l’effetto di questa notizia, vorrei precisare che i 187 soggetti presi in considerazione erano i giornalisti più straordinari, coraggiosi e pieni di talento degli ultimi trecento anni.

Ma non possiamo negare l’evidenza: diciannove di loro sono morti a causa dell’alcol, sette perché fumavano troppo, più di uno si è suicidato e tredici sono morti perché mangiavano in modo sregolato. Devo dire che quasi tutti i migliori giornalisti che ho conosciuto erano affetti da qualche tipo di dipendenza (se non altro quella dalla loro immagine riflessa nello specchio).

Ricordo il caposervizio dal temperamento così violento che una volta lanciò un computer da una finestra del terzo piano; la coppia scoperta da un agente della sicurezza a fare l’amore sul tavolo della sala riunioni; i due giornalisti sportivi talmente aggressivi da arrivare a fare a pugni sul nastro che trasporta i bagagli all’aeroporto di Heathrow; interi bar pieni di ubriachi, uno dei quali una volta andò avanti per nove giorni nutrendosi solo di vodka e patatine.

C’è stato anche il redattore di una rivista americana che, per dimostrare che i giornalisti sono tipi versatili, indagava sulla vita privata delle stelle di Hollywood, ma invece di pubblicare il materiale incriminante lo usava per ricattarli; e quel ghiottone di un giornalista del New Yorker, mandato in una clinica svizzera per perdere peso, che a forza di svignarsela per andare al ristorante è uscito più grasso di quando era entrato.

Potrei continuare, ma non vorrei arrivare alla conclusione che tutti i giornalisti sono così, o che le firme di questa rivista e quelli che ci lavorano sono tutti fumatori di oppio, alcolizzati senza speranza o maniaci sessuali.

Alcuni di loro potrebbero esserlo – mi arrivano notizie contrastanti – ma è più probabile che, anche se non sono modelli di virtù, siano persone piuttosto normali. Tranne che per un aspetto: quel pizzico di mentalità contorta che ci fa desiderare di diventare giornalisti.

Mi spiego meglio. Molti anni fa, quando diventai per la prima volta il caporedattore di un giornale nazionale, a Londra ci fu una grande manifestazione contro una nuova tassa imposta dal governo di Margaret Thatcher.

Ero in redazione quando una nuova segretaria che lavorava per me solo da qualche giorno mi passò una telefonata. Era il giornalista che avevo mandato alla manifestazione. Stavano succedendo cose terribili. Erano scoppiati dei violenti incidenti, sembrava che ci fossero anche dei morti.

Saltai subito in piedi e ordinai ad altri due reporter di precipitarsi sul posto, ai grafici di disegnare una mappa della zona dei disordini, ai fotografi di andare immediatamente e così via. La nuova segretaria era allibita.

“Si sta divertendo, vero?”, mi chiese. “Sì”, risposi io. “Ma lì ci sono dei feriti”, disse lei. “Non posso farci niente”, risposi. “Non sono un dottore. Il nostro compito è scoprire cosa è successo e perché, per raccontarlo alla gente”. Ci pensò su un attimo, poi riprese il suo lavoro e io il mio.

All’inizio della settimana seguente andò dal direttore e diede le dimissioni. Quando le chiesi perché, disse che non se la sentiva di lavorare con i giornalisti “dopo aver visto che tipi erano”. Quella sera raccontai la storia a mia moglie, che è infermiera, sperando in una sua parola di conforto. Ma invece di mostrarsi comprensiva con me, disse che capiva perfettamente i sentimenti della ragazza. “Se vengo a sapere di un terremoto io mi intristisco, tu invece ti ecciti. Non è normale”.

Credo che abbia ragione, come a volte capita alle mogli. Per noi giornalisti, le catastrofi del mondo non sono soltanto eventi sui quali indagare per poi raccontarli ai lettori. Sono anche – diciamo la verità – il palcoscenico sul quale recitiamo e proiettiamo il nostro ego. E se quelli di noi che siedono dietro una scrivania sono un po’ strani, non c’è da meravigliarsi se i giornalisti straordinari, che rischiano la loro vita e la loro libertà per andare a caccia di notizie, sono spesso ubriaconi, spendaccioni, libertini e drogati. E la cosa più terribile è che ne siamo orgogliosi.

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