03 aprile 2018 17:21

Fino a qualche tempo fa abbiamo esorcizzato la morte nascondendola, da un po’ di tempo stiamo provando a cancellarla esibendola. La serie televisiva Altered Carbon, tratta dall’omonimo romanzo (2002) di Richard Morgan, va in questa direzione.

La narrativa deputata a immaginarsi il nostro futuro ha capito da un bel po’ che il vecchio nesso anima-corpo, calato nell’era digitale e condito con un po’ di resurrezione e un po’ di reincarnazione, va a toccare zone profonde. Ma ciò che colpisce, in Altered Carbon, non è tanto l’ipotesi, sempre più presente in libri, film e videogiochi, che una volta digitalizzata la coscienza, il problema sarà proteggere il supporto elettronico e non il corpo vivo, ridotto ormai a una custodia usa e getta.

Colpisce piuttosto che in questo mondo ipertecnologico da venire – un po’ Egitto dei faraoni, un po’ medioevo cristiano – è dato per acquisito che conti solo la “vera morte”, quella dell’anima. La morte del corpo invece, pur restando dolorosissima, è considerata alla stregua della distruzione di una teca. Morire insomma che problema è? Il corpo vivo e sano è ormai solo un pupazzo il cui strazio può essere spettacolarizzato, sadicamente goduto, torturato agevolmente, ridotto con disprezzo sadico a oggetto, assassinato. Forse il nostro più recente immaginario sta spostando nel futuro una realtà che è già la nostra.

Questa rubrica è uscita il 30 marzo 2018 nel numero 1249 di Internazionale, a pagina 12. Compra questo numero | Abbonati

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