Al centro della Lapponia, terra dei sami, dove le montagne sono sacre e la natura conosce poche vie di mezzo, Kiruna trema. La più settentrionale delle città della Svezia deve la sua ricchezza all’estrazione del ferro dal monte Kiirunavaara, che racchiude uno dei più grandi giacimenti del mondo. La stessa miniera che ha dato vita alla città la sta facendo sprofondare, esplosione dopo esplosione, e gli abitanti convivono con il sordo brontolio che sale dalle sue viscere. Nei prossimi anni l’intera città dovrà essere spostata a pochi chilometri di distanza. È l’atmosfera sospesa in cui si muovono i protagonisti di Broken hill blues (Ömheten), quattro adolescenti di poche parole alle prese con ansie e sogni della loro età. A maggio la regista svedese Sofia Norlin, da vent’anni a Parigi, è venuta a presentare questo suo primo lungometraggio al [Brussels film festival][1].
Qual è stato il punto di partenza di *Broken hill blues? Il tuo interesse per l’universo dei giovani, già al centro del tuo cortometraggio del 2005 Les Courants, o la particolare situazione di Kiruna?*
Sapevo di voler dedicare il mio primo lungometraggio ai giovani. Dal 2010 animo un laboratorio di cortometraggio per ragazzi nella banlieue di Parigi. Si tratta spesso di primo-arrivants, appena arrivati in Francia, con percorsi molto difficili alle spalle. Eppure la loro è l’età in cui si sogna, nonostante tutto. Volevo parlare di quell’età, ma anche del mondo che stiamo lasciando ai nostri figli (io ne ho tre), degli squilibri che abbiamo creato e del posto che il sogno e la felicità possono ancora trovare in un mondo così.
Kiruna ti è sembrata una metafora perfetta?
All’inizio avevo pensato di ambientare il film nei luoghi dove sono cresciuta, il villaggio di Njurunda e la vicina città industriale di Sundsvall, che non è molto diversa da Kiruna. Si trovano entrambe al nord – per gli svedesi il nord copre i due terzi del paese – e i paesaggi sono simili, una natura millenaria e selvaggia a contatto diretto con enormi industrie. Mi era tornata in mente un’immagine del mio passato: da giovani ci ritrovavamo in un hangar abbandonato pieno di erbacce, che la natura stava lentamente riconquistando. C’erano skaters, gruppi hard-core, è lì che andavamo a sognare, ed è lì che ho preso per la prima volta una videocamera in mano. Quell’hangar era proprio accanto a un’enorme fabbrica di alluminio, un colosso lungo due chilometri che rappresentava l’inaccessibile mondo costruito dagli adulti. Poi, però, ho letto un articolo su Kiruna, ed effettivamente mi è sembrata una metafora perfetta. Lì il problema dello squilibrio si pone in modo concreto, urgente. Devono ricostruire la città da zero e per farlo devono rispondere a una domanda essenziale: che tipo di società vogliamo? Cosa dobbiamo cambiare per uscire da questo stato di disarmonia che sappiamo non essere sostenibile né sul piano ambientale né su quello economico?
Broken Hill Blues - English Trailer from Petrus Sjövik on Vimeo.
Broken hill blues oscilla tra documentario e finzione. Alcuni personaggi, per esempio, sono degli abitanti di Kiruna. L’hai pensato così fin dall’inizio?
Nel progetto che ho presentato per trovare dei finanziamenti il film era un lungometraggio di finzione, molto più narrato. Ma quella era solo la prima scrittura. Il film ha preso forma soprattutto intorno alle immagini che io e Petrus Sjövik, il direttore della fotografia, abbiamo cominciato a girare durante i nostri viaggi a Kiruna. Per anni siamo andati a esplorare la città e i suoi dintorni, a conoscere gli abitanti. Ci capitava di incontrare qualcuno e di decidere di inserirlo nel film. È un modo di procedere rischioso ma anche esaltante. Dà come un senso di vertigine. Lasci andare quello che hai scritto fin lì e ti apri alla possibilità di accogliere elementi nuovi, più forti, più poetici. Ecco, più andavamo avanti e più il film diventava poetico.
Più simile a una canzone, come lascia intendere il titolo inglese del film?
A me piace paragonarlo a un lavoro di uncinetto! Una trama fatta di vuoti, di silenzi… Ma sì, è vero, è anche costruito come una canzone, anzi come uno joik, un canto tradizionale sami. Questi canti descrivono lo stato delle cose, che è proprio quello che mi interessa, più del racconto di una storia. E mi interessa capire fin dove ci si può spingere con i mezzi poetici del cinema – il suono, la musica, l’immagine, il ritmo, il montaggio – per descrivere lo stato delle cose, per creare una tensione senza ricorrere alle parole. Ho preferito però non mettere musiche dei sami nel film. Tarkovskij le ha usate molto, e inoltre temevo avessero un effetto esotizzante.
Il titolo originale, *Ömheten, è di difficile traduzione.*
Ömheten * vuol dire tenerezza, ma può indicare anche la sensazione di dolore che si prova dopo essere stati colpiti. Nel film c’è molta violenza, la violenza del mondo in cui crescono i protagonisti e a cui non possono sottrarsi, ma è una violenza interrotta da momenti di tenerezza, da gesti di amore che non hanno bisogno di passare dalle parole. Hai presente *Anthem di Leonard Cohen? “There is a crack in everything, that’s where the light comes in”.
*Com’è stato accolto il film in Svezia? *
In Svezia il cinema d’autore non è molto vario. Se poi consideri i film ambientati nel nord del paese, sono quasi tutti commedie o film d’azione. Nella mia équipe eravamo in gran parte originari del nord, e per noi era importante fare un film bello su quella regione. Temo però che il film in Svezia sia potuto sembrare troppo strano, forse addirittura non riuscito. Per questo sono felice di vivere in Francia, dove ho scoperto che si possono fare film d’autore di ogni genere, poetici e politici al tempo stesso.
In questi giorni nei cinema di Bruxelles danno *Night moves di Kelly Reichardt, altro film di poche parole su alcuni giovani confrontati alla disarmonia tra uomo e natura.*
Già, un altro esempio di come si possono fare fare film politici con sobrietà, senza essere espliciti.
Stai lavorando a un nuovo progetto?
In questi giorni a Bruxelles ho fatto qualche sopralluogo per il mio prossimo film, che parlerà di un bambino soldato congolese e del suo viaggio in Europa. Ci sarà di nuovo quel frottement, quello sfregamento tra realtà e finzione che è così importante per me.
*Broken hill blues *è in programma questo mese al Giffoni film festival di Salerno e a settembre al Milano film festival.
Francesca Spinelli è giornalista e traduttrice. Vive a Bruxelles e collabora con Internazionale. Su Twitter: @ettaspin
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