I premi ai notevoli film di Albert Serra e Joachim Pinto dimostrano che il neo-direttore Carlo Chatrian ha saputo mantenere alto il livello del suo predecessore, il “mitico” Olivier Père.
E con una media di film a nostro avviso più alta di quella dell’anno scorso, dove pure svettava l’indimenticabile Leviathan.
Come sempre tanti film in Piazza Grande con un ottima accoglienza di pubblico, tra cui il film di chiusura Sur le chemin de l’école di Pascal Plisson, delizioso e toccante film pedagogico e visivamente sontuoso su dei bambini del Kenya, del Marocco, dell’India e della Patagonia e le loro fatiche e traversie per recarsi a scuola in zone impervie,
e poi tante rassegne, come quella dedicata al grande regista portoghese Paulo Rocha, su cui ci soffermiamo. Rocha dovette andar via dal suo paese dopo aver sognato una possibile industria del cinema europeo, per fare comunque due film in Giappone dove andò a vivere: qui abbiamo potuto vedere, tra gli altri, il magnifico Mudar de vida (1966), capolavoro di umanità e di cinema, i due aspetti andando mano nella mano come fratellini siamesi, restaurato per le cure di un altro grande del cinema contemporaneo Pedro Costa, portoghese anche lui. E’ una storia, straordinaria, di grande semplicità (apparente) su un ritorno nel natio villaggio di pescatori da parte di un giovane uomo, le cui fattezze ricordano Che Guevara, un ritorno che assomiglia tanto alla ricerca di un ritorno alla speranza. Ma il villaggio, poverissimo, è preda di mutamenti irreversibili che segnano invece la fine di un mondo e di tante speranze. Anche cinematografiche. Il finale, però, fa da bel contrasto a quanto appena detto.
Qui sotto l’intero film, ma va precisato che su grande schermo e restaurato pare un film nuovo, fresco, potente quanto leggero, malgrado la sua drammaticità. Un neorealismo delicatamente poetico e onirico.
E poi ancora la vasta retrospettiva, che ha percorso il festival per l’intera durata, dedicata a George Cukor, grande regista Usa da riscoprire, curata dal professor Roberto Turigliatto, i focus sui registi membri delle giurie, gli ospiti d’onore come Faye Dunaway (davvero ancora una grande bellezza fascinosa malgrado l’età), Douglas Trumbull (autore, tra gli altri, degli effetti speciali di 2001, Odissea nello spazio di Stanley Kubrick), sir Christopher Lee (alias il Dracula dei film della Hammer), Werner Herzog, i Pardo d’oro alla carriera – Sergio Castellitto e il grande regista georgiano Otar Iosseliani (qualcuno forse ricorderà Un incendio visto da lontano e Caccia alle farfalle) –, senza contare le sezioni dedicate al cinema svizzero, la semaine de la critique, i fuori concorso, i cortometraggi, le sezioni sui film provenienti dal sud e dall’est Europa (Open Doors), ecc, ecc.
Ecco intanto delle brevi note critiche su quattro dei film vincitori del Concorso Internazionale, mentre rimando al prossimo post qualche nota su tre dei film vincitori della sezione Cineasti del presente. Mentre per i numerosi altri premi vi rimando al sito del festival che trovate [qui][1] e la pagina del palmarès che trovate invece [qui][2].
Historia de la Meva Mort, il film dello spagnolo Albert Serra, vincitore del Pardo d’oro, dimostra la consueta magica capacità del regista nel costruire immagini uniche in termini di poesia, dove è arduo scegliere tra singole inquadrature e sequenza.
Casanova incontra Dracula, lo avreste mai pensato? Ma questo Casanova è figlio della Commedia dell’arte e/o della Farce alla francese. E il Dracula, invece, pare a metà tra il Nosferatu di Murnau (per certi movimenti) e i re magi di un altro splendido film di Serra, El cant del ocells. Un Casanova buffonesco, quasi una maschera con la quale il regista gioca sullo stereotipo del mitico seduttore che si trova improvvisamente confrontato a un Dracula ieratico, grave, silenzioso. E lo spettatore viene confrontato alla gestualità di un corpo teatrale, da un lato, e a un volto pietrificato, dall’altro. Un film di opposizioni, di antinomie. La vacuità si oppone alla “serietà”, un sapere antico si oppone all’illuminismo. Ma le fascinose tenebre oscure dell’emozionalità, dell’irrazionalità, divorano poco a poco il mondo razionale, così come il film si fa via via sempre più pittorico, astratto, rendendo “materico” addirittura il supporto stesso del film, in una rivisitazione e fusione della storia della pittura occidentale da far venire il capogiro. Serra si conferma tra i registi più interessanti del cinema contemporaneo.
Albert Serra alla tv spagnola su Historia de la Meva Mort
El cant del ocells (2008)
E Agora? Lembra-me del portoghese Joaquim Pinto, vincitore del premio speciale della Giuria, potrebbe sembrare un ‘opera narcisistica, come lo è in parte il pur interessante, ma più modesto, Sangue di Pippo Delbono (presentato in Cineasti del presente), mentre invece è un diario pugnace e e poetico sulla propria condizione di malato cronico di Aids ed Epatite C e di cavia umana nella sperimentazione di nuovi farmaci. Per questa via assurge a grande film sulla condizione umana dalla connotazione universale e dagli accenti metafisici se non spirituali, dalle continue e sorprendenti invenzioni visive e simboliche, dagli innumerevoli riferimenti culturali e letterari che pervadono l’animo dello spettatore anche una volta conclusa la proiezione. Sperimentale dall’inizio alla fine, costituito da micro-frammenti – sapiente e raffinato il lavoro di montaggio –, vera e propria scalata della montagna per lo spettatore, nell’ultima ora e mezza circa diventa una pianura rigogliosa: il film di Pinto ci ha accompagnato per tutta la durata del festival (il film è stato presentato all’inizio), lasciandoci il ricordo di una delle visioni più è belle, intense, commoventi nel profondo e portatrici di conoscenza e consapevolezza, dell’intero festival. Per Pinto, tecnico del suono di alto livello per autori del calibro di Manoel de Oliveira o Raul Ruiz, produttore (per esempio del grande e rimpianto João César Monteiro), autore di vari lungometraggi e documentari, sarebbe ora che giungesse il momento della consacrazione. Dopo quella di Locarno, quella delle sale.
Il sud-coreano Hong Sang-soo, tra i più apprezzati cineasti dell’Estremo Oriente, è intriso di cultura francese. Uno dei suoi ultimi film, In Another Country, aveva tra l’altro come attrice protagonista Isabelle Huppert. Non sorprende quindi constatare che il suo nuovo film, U ri Sunhi *(Our Sunhi*) premiato con il Pardo per la miglior regia, abbia ancor più forti accenti alla Eric Rohmer. Si tratta di una deliziosa pièce corrosiva, con pochi attori, dai toni minimali. Chi è più immaturo e manipolatore, il professore o l’alunna, l’intellettuale o il profano? E quanto è definibile una persona, quanto è conoscibile? Questioni complesse, se non gravi. Ma c’è anche tanta leggerezza, brio, humour sbarazzino, splendidi colori autunnali in questa commedia dai ritmi praticamente perfetti. Hong Sang-soo ha uno sguardo profondo sulle dinamiche psicologiche e sociali nascoste, più o meno inconscie, quanto profondamente umano. Nonostante tutto. A quando una commedia di Hong Sang-soo finalmente in Italia?
Presto a quanto pare, a fine agosto dovrebbe infatti uscire In Another Country per Tucker Film. Non perdetelo!
Lo scorso anno scrissi da Locarno, come potete leggere [qui][3], che non se ne poteva più di film statunitensi, come quelli visti nell’edizione dell’anno scorso del festival (ad esclusione di Compliance che faceva del cinismo critico e problematico e del delizioso, europeo, ed umanistico cortometraggio dei straordinari e simpaticissimi zuzzurelloni fratelli Safdie), compiaciuti nella constatazione di un America cinica, levigata, narcisistica senza veri sprazzi e slanci di umanità verso l’altro. E quindi concludevo che se le cose stavano così era ora di suicidarsi, sul modello delle grandi sette di cui l’America del dopoguerra è stata piena. Ecco invece che arriva inatteso questo piccolo eccellente film, ben altra cosa rispetto alle commedie formattate spacciate per cinema indipendente che escono in Italia e di cui il grande colpevole è il festival/lobby Sundance Film Festival di Robert Redford.
Short Term 12 di Destin Creton, al suo secondo film, è davvero una piccola grande sorpresa, malgrado la sua prima versione in cortometraggio sia stata premiata proprio al Sundance Film Festival. Non si tratta di pomparlo oltre misura, poiché non è un grande film, né tanto meno un capolavoro, ma certamente è un ottimo film, e non è poco. Un po’ inusitato, nel contesto Usa, perché umanistico, molto onesto e molto umano, potrebbe funzionare benissimo nelle sale italiane in quanto breve, diretto e divertente. Uno degli aspetti più originali sta nel rivelare, gradualmente, e con non poca finezza nei vari passaggi, che i ragazzi volontari presso Short Term 12, “un centro di accoglienza per adolescenti a rischio”, hanno dietro le spalle un passato altrettanto problematico dei ragazzi esplicitamente problematici che cercano di aiutare. Anzi, è proprio il confrontarsi ad essi che fa uscire fuori certe cose dell’intimo dei ragazzi più grandi spingendoli ad una “crisi” di maturità, ribaltando così gli equilibri interni: chi guida è guidato e viceversa. Bello, democratico, paritario e molto credibile. Ecco un altro film che meriterebbe una distribuzione italiana.
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