Boris Lojkine
Hope*
Semaine de la Critique, Francia 91’
“…e invece li accogliamo e li teniamo qui e ci costano 800- 1000 euro ciascuno al giorno”, ha dichiarato ieri Silvio Berlusconi, lamentando che le nostre navi sarebbero nell’impossibilità di respingere immigrati per rimandarli indietro.
Nello scorso post da Cannes, sul film di Bonello Saint Laurent, dicevamo di come la vicenda umana e creativa dello stilista fosse anche il paradigma di certa arte che resta fuori dai dolori del mondo, pur veicolando la propria interiorità. Una ricerca della bellezza, che trova quindi la sua verità.
Visto martedì (cioè ieri) alla Semaine de la Critique, ecco un piccolo film, sul piano produttivo, ma anche nella totale assenza di una qualsiasi ostentazione delle sue ambizioni. Ed è proprio questo elemento a farne un grande exploit.
Tratta proprio di quelle tragedie del mondo che si vorrebbero evacuare dalla testa: Hope, del regista francese Boris Lojkine, girato tra Sahara e prossimità del territorio europeo, racconta l’ennesima vicenda, senza retorica, di un uomo e di una donna che cercano di fuggire dalla povertà per cercare fortuna, anzi, speranza come dice il titolo.
Hope è anche il nome della donna in questione. Lei è nigeriana, lui è del Camerun, e si chiama Leonard.
Quello di Hope è un bellissimo personaggio femminile, la loro una splendida e, soprattutto, “vera” storia d’amore. Impossibile.
Il regista ha uno stile secco e asciutto senza essere freddo, sta dietro ai personaggi con la camera da presa senza fare pornografia, facendo sì che lo svelamento – perché di questo si tratta – della storia d’amore, fino al sacrificio finale, si offra gradualmente allo spettatore. Con pudore. E con realismo.
Leonard e Hope, per restare uniti, devono superare le divisioni tra gli stessi africani, i pregiudizi e i tanti spregiudicati affaristi che si annidano tra loro. In quell’inferno. Divisioni tra chi è del nord Africa, della Nigeria, del Camerun…
In realtà, passare dallo stadio di salvatore (Hope viene abbandonata nel deserto quando si scopre che è una donna) a quello amoroso, comporta che si producano, in una prima fase, comportamenti incerti e contraddittori, tipici di quando si ha tutti contro, tanto più quando si proviene da situazioni di grande povertà, di indigenza.
Così Leonard sarà prima il salvatore di Hope, il suo “uomo della speranza”, poi brevemente “magnaccia”, poi ancora fratello, infine un amore totale. Ma tutto questo è detto in maniera sommessa, senza mai intralciare una narrazione serrata, che riflette il vivere giorno per giorno, fattuale, di queste persone.
Non si può far morire la speranza, sul piano simbolico sarebbe troppo forte, e infatti Hope non morirà. Ma non per questo si può parlare di happy end.
Chi è il regista Boris Lojkine? Era filosofo, un “normalien” come si dice in Francia. Ha lasciato libri e università ed è partito in Vietnam.
Ha realizzato due documentari, dal punto di vista vietnamita, sul lutto, il dolore e il vissuto di persone la cui vita è stata attraversata dalla guerra.
Film corale, movimentato e senza un tempo morto, fatto solo con attori non professionisti, nessuno di loro ha però avuto la gioia di vedersi per un momento sul palco della Settimana della Critica, qui a Cannes. A quanto sembra ci hanno provato fino all’ultimo a farli venire, ma non sono soltanto stranieri, sono senza documenti d’identità tout-court.
Forse non esistono? Ecco, forse, una cosa che piace a Silvio Berlusconi.
Due estratti, per chiudere, dal press book del film (traduco dal francese), che, da soli, dicono moltissimo sui contenuti, l’intelligenza e direi anche l’eroismo che hanno presidiato alla realizzazione di questo film.
“Non vi è un solo attore professionista nel film. Tutti gli interpreti sono veri migranti che non hanno ma recitato prima. Per trovare Leonard, ho passato in rassegna i ghetti a Rabat, in Camerun. Per Hope, è stato ancor più complicato, poiché la maggior parte delle nigeriane in Marocco non sono libere, hanno dei ‘padroni’. Ho sfiorato i magnaccia, e tutte le domeniche, con la complicità dei pastori, andavo nelle chiese clandestine nigeriane. L’intero cast è stata un immersione nei bassi fondi del mondo della migrazione”.
“Sapevo che con i miei attori, i quali non avevano alcuna esperienza di recitazione, avevo bisogno di tempo. Ho dunque preferito ricostruire dei ghetti altrove, chiedendo agli attori e alle comparse di aiutarci a decorare, alfine di ritrovare un autenticità. Vi è una sola vera scena documentaria nel film, ed è quella in cui i migranti di Gourougou raccontano l’attacco alla barriera. La foresta di Gourougou, che sovrasta la città di Melilla, enclave spagnola in Marocco, è un luogo incredibile dove i migranti di raccolgono per ‘attaccare’ la griglia che separa questo territorio europeo dal resto del continente africano. Mi sembrava importante che a un dato momento nel film, la fiction incontri una realtà indiscutibile che ci ricorda che tutto questo non è soltanto del cinema”.
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