17 ottobre 2015 17:54

Much loved del regista francese di origini marocchine Nabil Ayouch (classe 1969) è uno splendido e ipnotico film sul movimento inesorabile della vita: la vita delle donne, che nel caso specifico è anche una non vita, ma in cui alla fine la vitalità ha il sopravvento.

Dopo Taxi Teheran di Jafar Panahi è il secondo titolo della neonata Cinema, nuova etichetta distributiva dedicata al cinema d’autore di Valerio De Paolis, storico capo della Bim.

Sono due titoli che si saldano tra loro poiché i rispettivi registi si trovano in difficoltà nei loro paesi d’origine, l’Iran e il Marocco: Panahi, da tempo agli arresti domiciliari, ha diretto un film sottile, ironico e amabilmente provocatorio girandolo per intero dall’interno di un taxi con se stesso come protagonista-chauffeur.

Ayouch, invece, ha diretto un film dove lascia parlare le donne, per trattare della questione della prostituzione nel suo paese, ma in realtà per affrontare il rapporto uomo-donna, attirando i fulmini dei censori, per sé e per le attrici, in uno dei paesi musulmani più liberali e riformisti.

Il risultato è che il film è stato vietato in Marocco. E avendo ricevuto diverse minacce, il regista ha dovuto prendere delle guardie del corpo per sé e per le attrici del film, suscitando una vasta reazione di solidarietà nell’ambito della comunità cinematografica internazionale, e nell’ambito degli ambienti culturali e giornalistici del Marocco.

Non farsi travolgere dagli eventi

Si connota dunque con precisione la nuova etichetta Cinema, anche se si corre il rischio di andare dietro al fenomeno del film “evento”, un po’ come si va dietro alla mostra “evento”: ma bisogna poi vedere se siano davvero film o mostre migliori, sul piano artistico, di altri che fanno meno notizia. Anzi, meno evento.

Ci sono infatti straordinari registi, più sottili e complessi, che raccontano il Nordafrica e la Francia delle minoranze (anche se da noi sembra esistere solo Abdellatif Kechiche), come l’algerino Tariq Teguia, autore di film come Rome plutôt que vous e Zanj revolution (presentato proprio l’anno scorso alla Festa di Roma, un film che ben centrava il clima delle primavere arabe), o Rabah Ameur-Zaïmeche, regista nato in Algeria anche lui ma residente in Francia da moltissimo tempo e autore di lungometraggi notevoli come Bled number one, film molto duro sul rapporto uomo-donna nella patria d’origine dell’autore, Dernier maquis o il controverso Histoire de Judas, uscito proprio quest’anno.

Chissà perché questi film sono dovuti quasi sempre ad autori di origini non francesi, eppure lo sguardo “sull’altro” è parte fondamentale della storia del cinema, e non solo.

Much loved, come il cinema di Kechiche, è in fondo espressione di un buon cinema popolare dalla forte impronta autoriale. Non a caso Ayouch, ora al decimo film, ha fatto parecchia tv, e non rinuncia a certi dialoghi e situazioni un po’ di maniera. Maniera che è rafforzata nella versione italiana dal doppiaggio.

Much loved

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La pigrizia dello spettatore

Abbiamo assistito a una seconda visione in sala assieme al pubblico (alla proiezione stampa ci è stata proposta la versione originale con i sottotitoli), e dobbiamo dire che queste voci spesso piatte e comunque monocordi, quasi da accattone perenni, non restituiscono assolutamente la vivacità e la concitazione, l’energia di queste donne, il loro modo di parlare tagliente, le loro erre arrotolate. Come già accaduto con Kechiche, si mutila un’opera cinematografica di alcune qualità fondamentali, proprio quando il cinema odierno è sempre più un’arte di narrazione visiva che esplora il suono anche quando si tratta apparentemente solo di dialoghi.

E qui va fatto un discorso, spiace dirlo, sulla pigrizia congenita dello spettatore italiano: siamo ormai tra gli ultimi in Europa a far prevaricare il doppiaggio. Questa pigrizia patologica è bene che finisca, perché danneggia pesantemente l’espressività delle opere, la loro piena comprensione da parte dello spettatore, oltre a far spendere inutilmente denaro ai distributori.

Sono due mondi che non riescono ad amarsi, per il semplice motivo che umanamente non s’incontrano mai

Detto questo, Much loved è comunque un gran film, un coraggioso e vivido ritratto di donne, in un paese, stando all’affresco che ci delinea il regista (composto ma molto fermo nel sostenere le sue idee, come ha dimostrato nella conferenza stampa tenuta a Roma), dove le donne sono l’ultima cosa in quanto esseri umani, ma la prima cosa in quanto oggetti di dominio al servizio dell’egocentrismo maschile.

Si può forse accusare il film di essere eccessivamente descrittivo e illustrativo, ma proprio questo permette ad Ayouch di delineare con poche pennellate un’ossessione per il dominio, ossessione che si riversa sull’altra metà del cielo, come si diceva da noi quando le donne di diritti ne avevano pochi o per nulla.

Di contro, le donne vedono gli uomini come semplici oggetti da cui spillare denaro e benessere: “Gli uomini sono come le marche. Lussuose, medie, e figli di puttana. Per me non c’è differenza tra loro. Ciò che conta è solo il denaro, capito?”, dice una delle quattro protagoniste, quando stanno ancora scorrendo i titoli di testa. Un incipit, con i corpi fuori campo, che tutto dice.

Sono due mondi che non riescono ad amarsi, per il semplice motivo che umanamente non s’incontrano mai. Colpa degli uomini, certo, ma in qualche modo anch’essi sono vittime delle pesantissime costrizioni derivate dalle convenzioni sociali e religiose, castranti.

Carnefici che sono anche vittime. Sposando il punto di vista di “queste” donne, e di tutte le donne in una certa misura, il regista offre uno dei più vivi ritratti di gruppo di donne visti negli ultimi anni al cinema. E per creare questo quartetto affiatato, aspetto non secondario, il regista ha lavorato molto sul tempo: ha fatto frequentare tra loro le attrici, non professioniste, tranne una (Loubna Abidar), e non prostitute (ma Ayouch ha raccolto le testimonianze di più di 200 lavoratrici del sesso), ma provenienti da quartieri poveri.

Insieme per necessità, le quattro splendide amiche, a seconda dei casi picchiate dalla polizia, senza diritti, ripudiate dalla famiglia, tra di loro se la spassano, si sfottono, spesso grevemente, a volte litigano, ma il loro rapporto rimane sempre caloroso. Vivo.

Così le quattro ragazze protagoniste si aiutano e si proteggono l’un l’altra nell’affrontare il lavoro di far merce del loro corpo a Marrakech, e questo permette al film di spaziare, dimostrando di essere un film in movimento – o potenziale film-movimento – tra turisti occidentali e mondo arabo in generale, dove spiccano i sauditi per grettezza umana, ostentazione del denaro e della ricchezza, dominio narcisistico delle donne.

Un desiderio di oblio

Il regista li fa a pezzi, e il culmine è rappresentato dalla sequenza in cui uno dei sauditi non riesce a eccitarsi nemmeno aiutandosi con un film porno. In realtà quello che pareva il più macho è un gay nascosto. Nessun uomo si salva completamente, esiste solo il meno peggio: l’occidentale, più romantico, e che infatti sembra voler far l’amore e non un sesso meccanico e assieme selvaggio come gli altri, e un giovane cliente-amante di una delle quattro, che pare diviso tra un sentimento veritiero e delicato e il diritto riconosciuto al maschio di prendere con forza le donne prive di virtù quando lo desidera.

Vi è forse anche un desiderio latente di oblio, negli uomini come nelle donne, di cui sono espressione le numerose sequenze in stile documentaristico, all’esterno, per la città, o all’interno, in discoteca, di giorno e di notte: hanno una dimensione sottilmente onirica e a tratti prendono una connotazione ipnotica.

Much loved delinea un paradossale deserto di valori umani, affettivi e morali

E qui affiora il percorso del regista, decisamente più autoriale e meno di maniera rispetto a quello televisivo, nell’ambito del documentario, sia come produttore sia come autore. Oblio da una realtà quotidiana che pare una cappa impossibile da squarciare: atto d’accusa nell’atto d’accusa, questa società del Maghreb dietro le apparenze dell’osservanza religiosa sembra soffrire infatti degli stessi mali dell’occidente ma con la differenza che sta soffocando per l’assoluta mancanza di libertà.

Coniugato all’assoluta mancanza d’amore, l’habitat psicologico “naturale” di queste donne, che descrive i comportamenti di alcuni elementi significativi di un’intera società, delinea un paradossale deserto di valori umani, affettivi e morali. L’analisi delle relazioni familiari, o intime, è inscindibile da quelle sociali. In un crescendo continuo di tensioni, di violenza anche psichica.

Nondimeno le donne di Much loved, non prive di contraddizioni e ambivalenze, sono soprattutto espressione di un’intelligenza, di un anticonformismo, di un’energia, di uno spirito libero curioso del mondo, probabilmente aiutato dal fatto che le prostitute marocchine, stando a quanto dice il regista, non hanno protettori.

Tutto questo giunge allo spettatore, e lascia il segno. Arriva un messaggio, sottotraccia ma comunque netto: che lo si voglia o meno, il futuro, il nostro futuro, è nelle loro mani. È quel che permette di misurare quanto il film colpisca tutti i punti sensibili, e tra tutti quest’ultimo è quello che può far maggiormente paura. Much loved è un film degno, poiché il coraggio della denuncia e il coraggio della verità sono le migliori marche di riconoscimento di una società in crescita. E con un futuro.

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