05 ottobre 2017 17:38

“Benvenuti ad Act up. L’associazione è stata fondata nel 1989 sul modello di Act up New York. Act up è un’associazione nata all’interno della comunità omosessuale per difendere i diritti di chiunque abbia l’aids. Attenzione però: non è un’associazione di sostegno ai malati. È un gruppo di attivisti”.

Comincia così 120 battiti al minuto, il terzo lungometraggio del francese Robin Campillo, ambientato nella Parigi dei primissimi anni novanta, durante il secondo mandato del presidente socialista François Mitterrand.

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Non un capolavoro, come potrebbero far pensare i molti giudizi positivi espressi al momento della proiezione in concorso a Cannes, ma uno splendido film del tutto inatteso per la tematica e il mix di stili e punti di vista scelti. Un film che celebra la partecipazione democratica in prima persona invece che l’arrendevolezza all’apatia. Un film per tutti al di là delle appartenenze politiche e religiose, delle differenze generazionali e di orientamento sessuale, se però si è dalla parte non solo della libertà e del laicismo dello stato ma anche delle aspirazioni di tutti gli esseri umani a una pari dignità con gli altri.

Anche se aiutato dal Grand prix che gli ha assegnato la giuria di Cannes auguriamo al film di essere visto e accolto come merita. Perché se abbraccia una causa e delle questioni importanti dappertutto, in Italia lo sono in misura ancora maggiore. E ci auguriamo anche l’uscita in sala del titolo precedente dello stesso autore, l’originale Eastern boys, premiato a Venezia nel 2013.

Al centro dell’azione
La primissima scena, il prologo che precede sia i titoli di testa sia la scena con il dialogo citato in apertura, è un’invasione di campo durante una cerimonia da parte di un gruppo di giovani, che poi scopriamo essere un gruppo di attivisti. Cesure di azioni opposte tra esterno e interno, tra dibattiti dove si mettono in gioco le idee e azioni nello spazio fisico dove si mette invece in gioco il proprio corpo.

Complementari, però, nella loro volontà di mutare la realtà proprio perché il corpo è messo al servizio delle idee. Gli attivisti sono appunto quelli di Act up. L’associazione statunitense e la sua emanazione francese ebbero grandi meriti nel sensibilizzare l’opinione pubblica, i mezzi d’informazione, le istituzioni nel momento in cui l’aids causava moltissime vittime. Soprattutto adottando una dialettica aspra, quando non uno scontro frontale, con la politica, il mondo della medicina e gli ambienti religiosi. 120 battiti al minuto ricostruisce le dinamiche delle riunioni di Act up e con esse spaccati dei processi decisionali, le difficoltà nella comunicazione o nel trovare l’equilibrio tra le varie anime del movimento (omosessuali, tossicodipendenti, emofiliaci), e offre dunque una rappresentazione dell’attivismo moderno.

E suggerisce, con la sua vivace fotografia, che la democrazia non solo è cambiata ma cambierà sempre più grazie a queste lezioni che arrivano “dal basso”, dall’attivismo e dai movimenti che, come Act up, mettono in pratica la disobbedienza civile, a volte ai limiti della legalità, ma sempre pacificamente. Così, con forza, attaccarono l’inerzia criminale della Francia socialista di Mitterrand, colpita in quegli anni dal grave scandalo del sangue contaminato. E il film offre quindi anche lo sfaccettato ritratto di un’epoca.

Una lezione di laicismo che dovrebbe far riflettere in un paese dove il concetto di laicità è spesso frainteso

Difficile non pensare anche alla chiesa per la sua politica verso gli anticoncezionali, che in paesi colpiti da povertà, guerre, intolleranze religiose ed etniche, ha generato (in particolare in Africa) una vera devastazione. Campillo, nella dolcezza e semplicità del suo parlare, è stato molto diretto anche su questo presentando il film a Roma. Non c’è dubbio che il film sia per noi anche una lezione di laicismo che dovrebbe far riflettere in un paese dove la parola laicità pare ancora troppo poco compresa nel suo significato fondamentale.

Robin Campillo, che ha fatto parte di Act up e che ha sceneggiato il film con Philippe Mangeot, un altro attivista dell’associazione, è riuscito a restituire con naturalezza i dibattiti, la passione, la vita in essi presente, per mezzo di un grande lavoro sul set. Girando al mattino c’era il caos ma poi pian piano ruoli e interventi trovavano una strutturazione. Al montaggio ha poi mescolato questi due livelli. In ciò è stata certamente fondamentale la collaborazione costante del regista con Laurent Cantet, con il quale ha collaborato alla sceneggiatura e al montaggio nel recente L’atelier, presentato all’ultimo Cannes. Ma 120 battiti al minuto fa pensare soprattutto al più noto, originale e potente film di Cantet, La classe (Palma d’oro nel 2008), dove una coralità di voci equivaleva alla pluralità della vita come alla conflittualità in democrazia. Proprio in film come La classe o come 120 battiti al minuto, strutturati sulla genuinità di una coralità di voci, il doppiaggio può essere devastante e per apprezzare pienamente l’opera ne consigliamo la visione nella versione originale francese.

La complessità del lavoro estetico non è stata da meno. Lo stesso Campillo ha sottolineato che il digitale è molto freddo e va dunque lavorato bene per far uscire qualcosa di umano, intenso ed empatico. L’empatia è la parola che ci sembra meglio descrivere la rappresentazione della dimensione intima, la strana solitudine che permea il film. Una solitudine dolce, dove si è sempre alla ricerca della vita. Sorprende, sopra ogni altra cosa, constatare la dolcezza sensuale nel riprendere i corpi di due giovani ragazzi che si amano e desiderano anche nella malattia. Qui naturalezza ed empatia primeggiano.

Amore, vita e morte
Grazie a un fine lavoro delle inquadrature e di montaggio, il più delle volte si vede e non si vede, si suggerisce. Scene di sesso piene di umanità in cui però si vede l’amore fisico tra due persone malate. Lo stesso si può dire a proposito dei momenti fatti di sguardi tra i due ragazzi protagonisti, a cominciare da Nathan, la figura apparentemente dominante tra i due ma in realtà più incerta, che rivela il talento del suo interprete, Arnaud Valois.

Il film è chiaramente la rappresentazione di uno scontro tra vita e morte nascosto tra le pieghe di una quotidianità dal movimento incessante, impetuosa e polifonica. Ne sono il paradigma, speculare all’approccio comunicativo di Act up, l’uso di alcune simbologie, come il rosso sangue che invade la Senna, interpretabile come il sangue malato che invade il flusso della vita. La musica in generale e quella che si sente in discoteca in particolare, sono altrettanto importanti perché fanno vibrare la gioia e l’energia della vita. In fondo l’aids stesso è il simbolo della fine di una certa spensieratezza, l’avvento di un’era dove l’amore contiene la morte.

120 battiti al minuto riesce invece a trasmettere un forte desiderio di vita in questo campo di morte. Il desiderio sessuale e il desiderio di vita diventano una cosa sola. La voglia di spensieratezza, l’aspirazione alla libertà, elementi tipici della giovinezza, non sono realmente oscurati da questa dialettica binaria. E l’alternarsi delle opposizioni formali sono come altrettante respirazioni vitali. Finale compreso, visivamente quasi astratto se non pittorico, speculare rovesciato dell’inizio. L’azione pubblica e le azioni nell’intimità sono un’unica battaglia. 120 battiti al minuto respira come la vita e di conseguenza le dialettiche rappresentate al suo interno sono la vita.

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