14 ottobre 2022 12:18

È arrivato in sala un capolavoro che deve la fama all’arresto del suo autore, l’iraniano Jafar Panahi. Ma sarebbe comunque un capolavoro anche se a Panahi non fosse capitato nulla e a Venezia infatti, come abbiamo scritto, avrebbe meritato di più del Premio speciale della giuria.

Gli orsi non esistono è un film delicato e lieve, magico e di poesia, molto godibile alla visione, elementi che volutamente si antepongono alle questioni poste, profonde, della massima gravità e insieme della massima umanità. E la migliore espressione ne è proprio Panahi in persona, il quale come in tutti gli ultimi film appare in video mettendo in avanti, in modo semplice e sobrio, la sua placida umanità, la sua tranquilla bonarietà di fronte a ogni problema e avversità. Il corpo fisico di chi fa cinema ancora una volta fa qui il film.

Dopo essere stato messo a lungo agli arresti domiciliari – almeno un paio di suoi film sono incentrati su questo – poi liberato e ora di nuovo incarcerato, il regista iraniano realizza quasi un’opera presagio. Un film inquadrato, ossessivamente inquadrato, ma che cerca disperatamente di sfuggire all’inquadramento. La realtà raggiunge il protagonista, come un’ombra che si allunga, inesorabile.

Una prigione della mente
Un’ombra che raggiunge anche noi, perché è un film che seppur ambientato in una realtà minimale, quella rurale di un villaggio al confine con la Turchia, parla pure delle nostre società ridotte al pensiero minimo, al pensiero unico e fondate non solo sulla paura, ma sulla paura di quello che non esiste o quasi. Ci parla di una realtà che sta diventando una prigione della mente, che gradualmente si fa inestricabile da quella fisica, e che i poteri, manipolatori, ci spingono a costruire da noi, almeno in parte. E ci parla infine di una realtà che sta diventando sempre più inconoscibile. Infatti il principale interrogativo posto a noi tutti dal nuovo lungometraggio di Panahi è forse il seguente: quale realtà?

Dietro la sua estetica a tratti un po’ da presepe il film di Panahi è in realtà un’opera molto moderna, razionale, illuministica

Sembra ormai lontano il tempo in cui Panahi vinceva il Leone d’oro a Venezia con Il cerchio (2000), film chiaramente circolare sulla situazione dell’Iran, stato teocratico dove tuttavia si vota, ma che non riesce del tutto a uscire dal suo cerchio – inteso come una sorta di non luogo o di limbo dove si gira eternamente in tondo – non solo per gli indubbi, importanti, limiti del sistema ma anche perché i conservatori, ormai di nuovo al potere (forse anche grazie a Trump), per mantenere lo status quo della palude circolare lavorano ampiamente sulla paura, soprattutto negli ambienti rurali e più in generale tra i ceti poveri.

In tal senso, dietro la sua estetica a tratti un po’ da presepe (può sembrare un paradosso in un paese islamico ma in fondo non lo è: Panahi punta a un cinema universale), il film di Panahi è in realtà un’opera molto moderna, razionale, illuministica.

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Un film che cerca la flebile luce della razionalità nella notte dell’irrazionalità pur sapendo evocare la magia perduta di una notte da re magi, guidati dalla luce di una stella verso il salvatore, ma simboli di cosmopolitismo per quanto arcaici. E la notte è qui infatti magica, quasi fatata. Serena e tuttavia inquietante: nell’oscurità Betlemme, nelle sue varie declinazioni moderne piccole e grandi che vi fanno capolino, pare una chimera, un miraggio della notte. Il film sotto questo aspetto ritrova tonalità incantevoli degne di Kiarostami, già evidenti nel precedente lungometraggio di Panahi, il magnifico Tre volti (2018), dove peraltro si parlava del cinema e dell’inganno, come anche in Lo specchio (1997).

Sulla soglia
Il regista ha lasciato Teheran per sistemarsi in un villaggio di montagna al confine con la Turchia per stare il più vicino possibile alla troupe e al cast di un film ambientato in una cittadina turca al confine con l’Iran e che per questa ragione sta dirigendo virtualmente, parlando con loro attraverso il suo computer.

Sempre sulla soglia. Sulla soglia non solo tra realtà concreta e virtuale ma su una realtà continuamente (ri)messa in scena da tutti e da tutto: dagli abitanti del villaggio che preferiscono che la bugia diventi realtà pur sotto forma di verità ufficiale (il giuramento richiesto al regista il quale a sua volta propone di filmare tutto), come pure dagli stessi attori la cui condizione umana di finzione costante nella vita ne intacca ormai irreparabilmente la dignità.

E quale è più vera o recitata delle due storie d’amore parallele che qui si srotolano? Quella di presunta finzione del film girato da Panahi o quella del villaggio dall’autenticità altrettanto presunta? Ma siamo ben oltre il vecchio quesito su dove si situi la demarcazione del vero dal falso. Perché tutto si tiene su una soglia estremamente labile, costantemente. Come per lo stesso Panahi che sperduto nella notte si trova fisicamente sulla linea di frontiera tra Iran e Turchia, soglia dalla quale fa un balzo indietro, terrorizzato. E come per tutti noi, quando la paura ormai di tutto obnubila il pensiero razionale, ricorrendo a schematismi tra il buio e la luce da far rimpiangere la guerra fredda.

Groviglio di formule
“La gente di città ha problemi con le autorità, noi abbiamo problemi con la superstizione”, dice in una splendida sequenza notturna l’uomo del villaggio che ospita il regista. Un uomo che sembra perfettamente cosciente del groviglio di formule e situazioni rituali ormai prive di senso e di reale convinzione anche per di chi le mette in avanti, e che sembrano quindi recitate nella vita comunitaria per forza d’inerzia, perché è comune opinione di comodo l’impossibilità di fatto di uscire dal cerchio, o anche solo di concepirlo.

Di conseguenza chi dovrebbe essere vero e dire il vero recita come gli conviene o per confermare le proprie piccole false certezze. Chi dovrebbe recitare per dire delle verità presunte preferisce invece smettere e dirle frontalmente perché si trova di fronte al muro ultimo. E chi infine dovrebbe dirigere questa recita tenta di restare fedele a se stesso, ma forse è solo cieco. Forse effettivamente “non c’è luce alla fine di questo tunnel”.

Per il cinema stesso, arte principe del reale, siamo alla soglia ultima, o meglio quasi alla resa o, inversamente, alla resistenza ultima. Il neorealismo – scuola cinematografica di Abbas Kiarostami, maestro di Panahi – sembra farsi impossibile perché quasi privato di senso e su questo punto lasciamo lo spettatore riflettere sull’ineffabile finale. Il film, inteso qui come tutto il cinema, prende la deriva per conto suo. Oppure è la realtà a farsi troppo dirompente, il desiderio di una realtà che esprima finalmente una verità degna di essere vissuta, desiderio che non a caso è espresso da un personaggio femminile? E questa deriva del cinema-realtà sarà tale fino al punto di arrestarsi? E l’arresto, che si confonde nella realtà con quello del regista, sarà portatore di un nuovo inizio?

Come abbiamo scritto in apertura è un film inquadrato. Non solo dalla camera ma dalla realtà stessa che ha assunto forme mentali che, sedimentate, la rendono sempre più squadrata: se lo spettatore sarà attento constaterà che Panahi, seppur con naturalezza, abbonda di inquadrature in cui l’esterno appare incorniciato da schermi di computer, finestre, porte e quant’altro, fino a portare tutti questi livelli a confondersi tra loro, prendendo la forma di una sorta di assemblaggio di racconti concatenati e l’apparenza di piacevoli e antiche parabole. Come pure, a tratti, quella di una narrazione di fantascienza fatta di molteplici realtà parallele, dalle quali lo spettatore potrà uscire e rientrare per scoprire a piacere cose nuove, e di marce sul lato oscuro della Luna circondati dall’oscurità cosmica la più avvolgente, nelle quali lo spettatore, anche qui, potrà arrestarsi per contemplare punti e angolazioni altrettanto nuovi. Forse il modo migliore per riflettere e ritrovare il (buon) senso delle cose.

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