23 marzo 2015 10:17

In Italia esiste, da lungo tempo, una questione meridionale, solo che nel frattempo i problemi del sud del paese sono diventati gli stessi di tutti i sud e le periferie del mondo.

Il discorso di Papa Francesco a Scampìa nella sua intensa giornata di visita a Napoli, andrebbe, anche per questo, non solo letto, ma ascoltato dal vivo: nelle parole di Bergoglio c’è infatti la passione di chi prova a scuotere le coscienze di una popolazione che, come ha sottolineato Domenico Pizzuti, gesuita e sociologo della comunità di Scampìa, certe cose non le aveva mai sentite dire in pubblico nemmeno dalla chiesa. I temi toccati da Francesco sono quelli ormai noti e in certo modo universali del lavoro, della corruzione, della criminalità, ma anche dell’indifferenza dei singoli, della passività, del lento degradare verso gli affari illeciti di una collettività e delle sue classi dirigenti. E qui il papa non è sfuggito al problema decisivo: la necessità di una risposta politica ai nodi strutturali e sociali di una realtà che altrimenti affoga nella irresolutezza, mentre la speranza di un cambiamento muore nel quotidiano.

Il video di Tv2000

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“Incoraggio”, ha scandito Francesco in una parte del suo intervento di fronte alla gente di Scampìa “anche la presenza e l’attivo impegno delle istituzioni cittadine, perché una comunità non può progredire senza il loro sostegno, tanto più in momenti di crisi e in presenza di situazioni sociali difficili e talvolta estreme”. “La ‘buona politica’”, ha aggiunto “è un servizio alle persone, che si esercita in primo luogo al livello locale, dove il peso delle inadempienze, dei ritardi, delle vere e proprie omissioni è più diretto e fa più male. La buona politica è una delle espressioni più alte della carità, del servizio e dell’amore. Fate una buona politica, ma fra di voi: la politica si fa tutti insieme! Fra tutti si fa una buona politica!”. Richiamo doppio e non scontato: il primo rivolto alla responsabilità delle istituzioni, il secondo alla partecipazione, cioè all’impegno diretto dei cittadini per cambiare le cose. Non solo denuncia dunque.

Ma il giorno dopo se le parole del papa contro la camorra hanno avuto eco sui giornali di tutto il mondo, la classe politica italiana ha fatto finta di niente, si è voltata dall’altra parte come se Scampìa e il papa, appunto, si fossero trovati sabato 21 marzo non alla periferia di Napoli ma alla fine del mondo.

A colpire non è tanto e non solo l’assenza totale di un dibattito politico pubblico in merito alle denunce fatte dal papa, quanto la sordità assoluta di fronte alle stesse tematiche sollevate: il lavoro sottopagato che diventa schiavitù, quel “tutti siamo migranti” affermazione-scandalo ignorata come se fosse uno scandalo indicibile, il diffondersi della corruzione come virus che tocca ciascuno di noi perché “è una tentazione, è uno scivolare verso gli affari facili, verso la delinquenza, verso i reati, verso lo sfruttamento delle persone”.

Di particolare significato è stato in questo senso proprio il passaggio dedicato alla corruzione dove il papa ha provato a demistificare il problema scardinandolo da un ambito puramente giudiziario o moralistico e anzi – come ha fatto pure di recente nelle periferia romana di Tor Bella Monaca o a Manila, nelle Filippine, nel gennaio scorso – lo ha riportato su un piano decisamente politico affermando che si tratta di una forma di oppressione sociale, la stessa prodotta pure dalla malavita organizzata.
Qui l’assenza di interlocutori politici un po’ colpisce e un po’ spaventa: perché è sintomo di uno smottamento profondo, ovvero dell’allargarsi di una frattura, di una crescente incomunicabilità, tra partiti, quindi rappresentanza democratica, e realtà. E ancora di come, in fondo, il corpo sociale rischi di rassegnarsi a questa deriva.

Non solo: il caso mette in luce anche un altro aspetto del mutamento nel rapporto tra il “palazzo” e la chiesa; risulta infatti evidente che quando il papa chiede ai cristiani la radicalità del Vangelo – poiché il suo resta il discorso di un leader spirituale – una politica abituata all’adulazione della gerarchia ecclesiale e al rapporto felpato con il Vaticano, con il monsignore o il cardinale di turno, perde la bussola e la parola.
Ma, forse, una certa diffidenza e un certo timore verso il messaggio proposto dal papa a Napoli nascono pure dalla presa di coscienza, da parte di leader e dirigenti politici come da settori dell’opinione pubblica, che nel magistero di Francesco siamo di fronte non più a episodi, cioè a momenti di deragliamento da uno status quo ordinario, ma a un’operazione programmatica. Spostare a sud (o far ripartire dal sud) la chiesa, è l’obiettivo di Bergoglio e su questo il papa non conosce prudenze. Basta guardare al percorso compiuto dal pontefice finora in Italia: Lampedusa, i migranti, la scomunica ai mafiosi nella piana di Sibari, in Calabria, poi Cagliari, Campobasso, il lavoro e la disoccupazione; oppure la visita a luoghi simbolici come Assisi o il sacrario di Redipuglia in Friuli Venezia Giulia, nell’anniversario dei cento anni dall’inizio della prima guerra mondiale. È un messaggio destinato in primo luogo alla chiesa; da qui anche la scelta di alcune nomine come quella dell’arcivescovo di Agrigento (e Lampedusa) Francesco Montenegro a cardinale, o quella di monsignor Nunzio Galantino, vescovo di Cassano Jonio, come nuovo segretario generale della conferenza episcopale.

È un vento del sud, dicevamo, che Francesco vuole soffi in primo luogo dentro le strutture arrugginite e clericali che egli stesso rappresenta. Ma, allo stesso tempo, indubbiamente quella del papa argentino è diventata l’unica voce di un grande leader mondiale che esprime – nel bene e nel male, nella contraddittorietà e nella rottura di schemi – il punto di vista del sud del mondo, di quelle periferie urbane e non solo, abitate da milioni di esclusi e dimenticati (la “cultura dello scarto” di cui parla spesso Francesco). E dato che la chiesa si costruisce fortemente anche di simboli, di testimonianze personali, va ricordato che con Bergoglio, finalmente, si è chiusa positivamente la causa di beatificazione di monsignor Oscar Arnulfo Romero, l’arcivescovo di San Salvador ucciso sull’altare nel 1980, secondo la chiesa in odium fidei – fatto rilevante perché gli assassini e i mandanti si dichiaravano ferventi cattolici – mentre si apre il processo per la beatificazione di don Peppino Diana, il sacerdote assassinato a Casal di Principe dalla camorra nel 1994, anch’egli nella sua chiesa.

Un ultimo riferimento è giusto fare al tema della mafia. Se è vero che ci sono degli importanti precedenti nelle parole pronunciate da Wojtyla e poi anche da Ratzinger contro il crimine organizzato, è chiaro che con Bergoglio la denuncia pubblica contro la mafia, la ‘ndrangheta e la camorra, ha fatto un salto di qualità. Anche in questo caso è bene collocare la sensibilità del papa su un tema tanto nevralgico quanto delicato, in un contesto più ampio. Diverse volte Francesco ha parlato del rischio rappresentato dalle organizzazioni criminali al livello globale; d’altro canto il controllo crescente esercitato dai grandi gruppi del narcotraffico sulla società e sulla politica di diversi paesi latinoamericani, nonché il disastro sociale costituito dalla diffusione della droga, sono temi ben presenti nell’agenda di Bergoglio fin da quando era arcivescovo di Buenos Aires.

In questo senso Francesco ha di fatto chiamato in causa quei settori del clero conniventi o collusi con le organizzazioni mafiose. È stato un richiamo duro per una chiesa che non è abituata a essere messa di fronte alla realtà in modo tanto esplicito addirittura dal vescovo di Roma. Sarebbe però riduttivo – e forse ipocrita – non allargare il richiamo del pontefice alla separazione delle istituzioni dai poteri criminali anche ad altre sfere della società, non essendo la chiesa in questo campo l’unica ad aver avuto responsabilità di rilievo.

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