10 aprile 2017 15:45

La sequenza impressionante di attentati e azioni militari avvenuti in Europa e in Medio Oriente nelle ultime settimane è una sfida estrema per qualsiasi strategia di uscita graduale dai conflitti e dalle crisi umanitarie che dilagano in diversi quadranti del globo.

Tra i pochi leader mondiali ad aver compreso pienamente la gravità della situazione c’è sicuramente il papa che, non a caso, ha in programma un viaggio in Egitto per il 28 e 29 aprile. Al Cairo – se tutto verrà confermato dopo gli attentati rivendicati dal gruppo Stato islamico nelle chiese copte di Alessandria e di Tanta – Bergoglio incontrerà una delle principali autorità sunnite del mondo musulmano decisa a battersi per la pace e la riforma dell’islam: il grande imam dell’università di Al Azhar, Ahmed al Tayeb. Quindi vedrà il papa copto Tawadros II – e il colloquio acquisterà un significato più ampio dopo gli ultimi fatti di sangue – e poi il presidente Abdel Fattah al Sisi, nuovo autocrate asceso al comando di una grande nazione araba governata con pugno di ferro e ferocia, come ha tristemente mostrato al mondo il caso di Giulio Regeni.

Ma Francesco, ben consapevole che l’angoscia e l’assenza di speranza attuali rappresentano l’alleato più potente sul quale possono contare terroristi e dittature, prova il tutto per tutto recandosi di persona nell’occhio del ciclone. Fonti della chiesa cattolica egiziana confermano la visita di Francesco, mentre Tawadros II ha osservato dopo gli attentati: “Questi tentativi vili di colpire persone in pace in luoghi di culto dimostrano che il terrorismo non ha religione”.

Comunità ridotte al lumicino
La visita del papa al Cairo ha però come sfondo pure un altro e meno visibile scenario: il Medio Oriente, infatti, costituisce da tempo un rebus difficile da risolvere per la chiesa di Roma. Le antiche comunità cristiane sono ormai ridotte al lumicino, messe in fuga da decenni di guerre, dal dilagare della povertà, dall’instabilità economica e politica, dalle persecuzioni. In tal senso i cristiani condividono il destino di milioni di loro concittadini musulmani o di altra fede; l’intera regione mediorientale, dunque, non è solo dissanguata a causa delle violenze, dei conflitti, del numero spropositato di morti, di mutilati, di scomparsi, ma ormai è anche abbandonata da milioni di abitanti, di famiglie, di giovani in fuga attraverso il Mediterraneo per scampare alla sorte toccata alle loro nazioni, ai loro connazionali, ai familiari e agli amici.

È in questo quadro che ha fatto irruzione, nella notte fra il 6 e il 7 aprile, il lancio di 59 missili Tomahawk da due portaerei americane verso una base militare del regime di Damasco dalla quale sarebbe partito il raid aereo, con l’uso di micidiali agenti chimici, contro la popolazione civile della città di Khan Sheikhun, nella provincia siriana di Idlib, controllata dai ribelli. L’attacco chimico ha provocato decine di vittime e ben presto i media di tutto il mondo hanno trasmesso le immagini agghiaccianti dei bambini colpiti dai gas: “L’umanità è morta oggi in Siria” ha detto Andrea Iacomini, portavoce dell’Unicef in Italia che segue da vicino la crisi siriana. L’intervento americano diventato infine esplicito e militarmente significativo, per quanto una tantum, come hanno precisato fonti del Pentagono, è arrivato dopo sei anni di conflitto e ha riaperto contraddizioni profonde anche nella chiesa e nel mondo cristiano.

Nel settembre del 2013, il papa intervenne in prima persona per fermare la possibile rappresaglia militare della Casa Bianca contro il regime di Damasco; anche in quel caso l’esercito di Assad era finito sotto accusa per l’uso di ordigni chimici – vietati dalle convenzioni internazionali – contro la popolazione civile. Francesco promosse allora una giornata di digiuno in piazza San Pietro per arginare il rischio di un’escalation militare, considerata anche la forte opposizione russa all’intervento franco-americano. L’attacco poi non vi fu, un’intesa fra Usa, Russia e Nazioni Unite impose al regime di Damasco di smantellare il proprio arsenale chimico, tuttavia l’accordo fu applicato solo in parte se è vero che altri attacchi con armamenti proibiti furono poi successivamente registrati da vari rapporti internazionali stilati da ong indipendenti. L’escalation, insomma, vi fu lo stesso, anche senza l’intervento di un tiepido Barack Obama, ma si realizzò principalmente contro una popolazione disarmata oggetto di massacri vendicativi prima da parte del regime, e poi completata con ferocia dagli uomini dell’Is in una gara omicida a chi spargesse più indicibile terrore nei territori conquistati e, in tal modo, “governati”.

La minoranza al potere ha ottenuto il consenso delle altre minoranze per scalzare e opprimere il resto della popolazione

Va da sé che pure dopo l’attacco missilistico deciso repentinamente dal presidente Donald Trump – e le cui giravolte e molteplici manovre in politica estera stanno diventando un nuovo genere giornalistico – la chiesa ha reagito in modo quasi automatico invocando naturalmente la moderazione e la soluzione politica, ma anche spargendo dubbi a piene mani su chi fossero i reali autori della strage di Idlib.

Da parte sua, il sostituto alla segreteria di stato, monsignor Angelo Becciu, esprimendo timore per il degenerare della crisi, finiva di fatto col collocare sullo stesso piano l’attacco chimico contro civili e bambini e la rappresaglia delle portaerei. Insomma una prudenza persino eccessiva. Allo stesso tempo va ricordato, come papa Francesco, nel dicembre scorso, avesse chiamato in causa direttamente il capo del regime di Damasco, Bashar al Assad, nel momento in cui l’assedio di Aleppo si andava concludendo e le rappresaglie dell’esercito contro la popolazione civile diventavano di ora in ora più gravi. Il nunzio apostolico a Damasco, il cardinale Mario Zenari, consegnò al presidente siriano un messaggio di Francesco nel quale si chiedeva il rispetto dei civili e del diritto umanitario di guerra.

E tuttavia, a emergere con chiarezza sono spesso le voci di patriarchi e prelati locali, strettamente connessi al regime di Damasco, come quella del vescovo caldeo di Aleppo, il gesuita Antoine Audo, che ha difeso esplicitamente il regime e messo in dubbio la sua responsabilità nella strage. La storia di quest’alleanza tra gerarchie e governo è complessa ma si basa su un principio di fondo: e cioè che la minoranza al potere (in Siria gli alawiti-sciiti della dinastia Assad, in Iraq il clan sunnita di Saddam Husseini) ha ottenuto il consenso delle altre minoranze – a cominciare da quella cristiana cui è stata concessa protezione – per scalzare e opprimere il resto della popolazione, sunnita o sciita che sia, alimentando così all’interno delle loro stesse nazioni odi etnici e persecuzioni. Uno schema che, sia pure con modalità diverse, si ripete pure in Egitto, dove la minoranza cristiano copta invoca la tutela del dittatore di turno (e non da oggi è fatta oggetto di massacri da parte di gruppi terroristici o di servizi segreti in una sorta di perpetua strategia della tensione mediorientale). In realtà i cristiani restano sì alleati, ma sempre “figli di un dio minore”, su una rigida scala etnica, anche se godono in ogni caso di privilegi e favori.

Cittadinanza, diritti e doveri
Quei pezzi di chiesa che hanno legato il proprio destino al regime ne condividono dunque la sorte, anche se questo dovesse comportare la fine delle loro comunità. È in tale contesto che il patriarca caldeo iracheno Louis Sako (pure fiero avversario del fondamentalismo), il segretario di stato cardinale Pietro Parolin, il grande imam di Al Azhar, Al Tayeb, con voci diverse ma uguale intento, hanno cominciato disperatamente a parlare di cittadinanza nel mondo arabo, per cristiani, musulmani, curdi, yazidi e via dicendo; cioè di un’apertura all’uguaglianza tra tutti i cittadini di uno stato arabo a prescindere dalla religione e dall’etnia di appartenenza. Il che significa, allo stesso tempo, pari diritti e doveri sul piano civile e mantenimento e tutela delle differenze, cioè della ricchezza del tessuto sociale (il contrario degli stati etnicamente omogenei). E se c’è un progetto che dittatori e fondamentalisti, come pure i settori cattolici più conservatori, detestano è proprio questo.

Un testimone troppo rapidamente rimosso della crisi siriana è stato il gesuita Paolo Dall’Oglio, che per moltissimi anni ha vissuto in Siria e fondato la comunità monastica di Mar Musa. Dall’Oglio appoggiò la rivolta siriana per la democrazia e la giustizia sociale prima che la repressione e i gruppi fondamentalisti se ne impadronissero per trasformarla in una mattanza senza fine. Scomparso, cioè rapito da gruppi fondamentalisti il 29 luglio 2013 presso Raqqa, città siriana in cui il cosiddetto califfato aveva posto il suo quartier generale, in precedenza era stato espulso dal paese dalle autorità di Damasco. Il 24 luglio, pochi giorni prima del suo rapimento, scrisse un drammatico appello a papa Francesco nel quale si leggeva:

Purtroppo il regime siriano è stato abilissimo nell’utilizzare un certo numero di ecclesiastici, uomini e donne, per propagandarsi in Occidente come l’unico e ultimo baluardo in difesa dei cristiani perseguitati dal terrorismo islamico. Questa operazione di manipolazione dell’opinione è riuscita a discreditare in gran parte lo sforzo rivoluzionario siriano, sul terreno e all’estero, agli occhi dei cittadini di mezzo mondo, e ha quindi potuto ottenere una paralisi della diplomazia e della politica europee che in definitiva non fa che rafforzare i gruppi più estremisti e indebolire la società civile. La forte e strumentale implicazione delle chiese nella manipolazione menzognera sistematica di regime non può non esigere una reazione cosciente e responsabile da parte della chiesa cattolica e dunque del papa di Roma

Tra le altre cose Dall’Oglio evidenziava chiaramente un rischio: che la persecuzione dei cristiani fosse un tema usato in modo propagandistico dal regime e dai suoi alleati (come successivamente dall’Is) per fare piazza pulita nel modo più sanguinoso degli oppositori interni e quindi di una parte grande della popolazione siriana. Resta da dire che è stato il presidente Sergio Mattarella, nel suo discorso d’insediamento, il 3 febbraio 2015, a rimuovere dall’oblìo la figura di Paolo Dall’Oglio citando il suo nome insieme a quello di altri volontari italiani scomparsi sui fronti più caldi del mondo.

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