04 novembre 2019 13:04

“Il recente sinodo dell’Amazzonia è stato teatro di spettacoli esecrabili in cui l’abominazione di riti idolatrici è entrata nel santuario di Dio in modo inedito e impensabile. Dal canto suo, il documento finale di questa assemblea turbolenta attacca la santità del sacerdozio cattolico, spingendo all’abolizione del celibato ecclesiastico e al diaconato femminile”. La “scomunica” del sinodo sull’Amazzonia – con tanto di messa di riparazione prevista per il 10 novembre – emessa da don Davide Pagliarani, superiore della Fraternità sacerdotale san Pio X (la congregazione degli ultratradizionalisti lefebvriani), è forse la miglior prova degli effetti dirompenti avuti dalla riunione dei vescovi della regione amazzonica che si è svolta in Vaticano lo scorso mese di ottobre.

Le conseguenze del sinodo, del resto, sono tutte ancora in divenire: in primo luogo perché sarà papa Francesco a dare forma alle richieste emerse dall’assemblea in un documento che uscirà entro la fine dell’anno (un’esortazione post sinodale); inoltre, o soprattutto, perché una volta scelta la strada della sinodalità, ovvero delle decisioni prese a maggioranza dopo un dibattito fatto di ascolto ma anche di visioni differenti – una ricerca di unità nella differenza, per usare una formula cara alla chiesa e così tipicamente politica – sarà difficile tornare indietro.

Si decide dunque cum Petro e sub Petro, ma si decide: il sinodo è uscito definitivamente dal letargo dell’organismo consultivo in cui era stato relegato a lungo, anche se poi sarà sempre il vescovo di Roma a indicare la strada e a garantire l’unità dell’orbe cattolico. Di certo a Roma non c’è più un sovrano assoluto. “La chiesa non è un parlamento”, ripetono come un mantra teologi e vescovi che hanno portato avanti insieme al pontefice la svolta in atto, a cominciare dall’anziano cardinale brasiliano Cláudio Hummes, per dire che un sinodo non è una contesa fra “partiti politici” ma segue un percorso di confronto aperto e guidato dalla fede.

La fine dell’assolutismo papale del resto era cominciato con le dimissioni di Benedetto XVI

Eppure non si sfugge alla sensazione che dopo due sinodi sulla famiglia in cui lo scontro fra progressisti e conservatori è stato aspro; un sinodo sui giovani, caratterizzato dalla richiesta di voto per le donne; e ora con l’assise panamazzonica, aperta alle chiese di nove paesi toccati dalla foresta pluviale, la chiesa sia diventata un po’ più democratica e un po’ meno soffocante. Anche abbastanza tollerante al suo interno visto che c’è – dal fronte conservatore – qualcuno che chiede le dimissioni del papa e non esita ad accusarlo di eresia. Intanto, qualche fondamentalista ultracattolico in vena di sabotaggi vandalici si è introdotto in una chiesa nei pressi del Vaticano per rubare due statue indigene che vi erano esposte (in concomitanza col sinodo) e le ha buttate nel Tevere perché “pagane”, sacrileghe. In altri tempi la Congregazione per la dottrina della fede avrebbe criticato duramente i nemici del papa, mettendoli ai margini della chiesa, ma oggi non accade nulla o quasi; la strada del dissenso a volte è urticante ma rientra nel metodo della riforma bergogliana.

La fine dell’assolutismo papale del resto era cominciato con le dimissioni di Benedetto XVI il quale, rinunciando clamorosamente al papato (all’inizio del 2013), aveva infine “umanizzato” l’ufficio petrino, desacralizzando il corpo e l’immagine del pontefice; tutto il resto è una conseguenza. Ci si potrà legittimamente domandare: è stata proprio la figura di riferimento del conservatorismo cattolico ad accendere la miccia del cambiamento nella chiesa? In parte è proprio così. Sarà poi compito degli storici indagare sugli avvenimenti e appurare se si sia trattato di una coincidenza, di una volontà o di un effetto scaturito da circostanze particolari; per ora bisogna prendere atto della sequenza dei fatti e del processo che da allora si è innescato.

E i fatti ci sono se è vero che il sinodo ha proposto per l’area amazzonica (ma è facile prevedere che la cosa avrà un impatto più largo) l’ordinazione sacerdotale di diaconi sposati; di laici, insomma, già inseriti nella vita delle comunità cattoliche. L’Amazzonia, territorio immenso e faticoso da attraversare, soffre di una storica carenza di sacerdoti e di missionari, per questo villaggi e comunità restano spesso ancor più isolati; da molti anni si discute del problema e delle possibili soluzioni: di solito si usa la definizione di “viri probati”, per indicare la possibile ordinazione di uomini di provata fede, anche sposati, rispettati dalla comunità, che possano celebrare la messa. Nella discussione preparatoria del sinodo si ipotizzò che potessero essere capi villaggio, in base all’idea di una chiesa dal volto finalmente indigeno, autoctono, figlio di una terra e di una spiritualità specifiche.

È evidente, in ogni caso, che l’indicazione arrivata dai 184 padri sinodali riuniti a Roma di aprire ai laici sarà importante per il futuro stesso del cattolicesimo. Lo sottolineava, fra gli altri, un editoriale di Le Monde del 29 ottobre. “La tradizione del celibato sacerdotale nella chiesa cattolica diffusa dopo la riforma gregoriana dell’undicesimo secolo, non è più intoccabile. Dopo tre settimane di dibattiti a Roma dal 6 al 27 ottobre, un’assemblea speciale del sinodo dei vescovi per l’Amazzonia ha intaccato quello che fino ad ora era un tabù”. “Se, entro la fine dell’anno – si spiegava ancora - papa Francesco, nella sua esortazione apostolica post sinodale, avallerà, come è probabile, questa raccomandazione, sarà una piccola rivoluzione”.

Nati da donna
Nel sinodo è risuonata poi la voce delle donne, una voce che sta diventando sempre più forte e autorevole. Invitate numerose tra gli uditori e gli esperti del sinodo, tra i rappresentanti dei popoli indigeni, sono tornate a chiedere il voto per le superiori generali (cape di congregazioni religiose) che prendono parte all’assise e soprattutto hanno scosso il mondo tutto maschile del clero con una lettura alternativa e forte delle cose. Come nell’intervento di Anitalia Claxi Pijachi, indigena amazzonica di Leticia, Colombia. “E non dimenticate, signori vescovi – ha detto davanti ai vescovi e al papa – che il vostro viso ha toccato una vagina, quella di vostra madre, quando siete venuti in questo mondo. Non dimenticate mai che siete venuti al mondo da una donna”.

L’assemblea ha chiesto che venga istituito un ministero specifico per le donne “leader di comunità” (sono la maggioranza nella regione panamazzonica, si tratterebbe di un riconoscimento significativo); un’ipotesi che però ha suscitato il dissenso del fronte femminista cattolico più intransigente da cui sale la richiesta di consentire l’accesso delle donne ai ministeri già esistenti e appannaggio dei soli uomini, a cominciare dal diaconato. Anche nel sinodo se ne è parlato e Francesco ha deciso di riconvocare la commissione di studio sul diaconato femminile per arrivare, presumibilmente, a una qualche apertura in tal senso.

Diaconi sposati che possono amministrare i sacramenti e ministeri femminili: il sinodo amazzonico sembra aver compiuto passi in avanti su temi al centro della discussione nella chiesa da alcuni decenni. Non solo: lo ha fatto delineando soluzioni specifiche per un’area del mondo, ha introdotto cioè un principio di decentramento concreto, sperimentale, sia pure sotto l’autorità del vescovo di Roma, che potrà essere applicato da altri sinodi locali (e già la chiesa tedesca è in fibrillazione e vuole spingersi anche oltre). Infine, i 184 padri sinodali mettendo mano a questioni dibattute da tempo sembrano aver tolto le castagne dal fuoco alle chiese del nord del mondo, europee in particolare, dove la stessa discussione ha prodotto contrapposizioni ma nessuna soluzione.

Su questo punto interessanti le osservazioni della presidente del coordinamento delle teologhe italiane, Cristina Simonelli, che parla di una sorta di “estrattivismo ecclesiale e teologico”, cioè di “uno sfruttamento del coraggio e delle difficoltà di quelle chiese per poter discutere quello che la vecchia Europa sembra voler lasciare al disagio comune ma inespresso o a piccoli gruppi che possono essere considerati velleitari”. Più severa la posizione espressa dal gruppo militante Donne per la chiesa, in sintonia con analoghe associazioni britanniche e statunitensi: “Quando si tratta delle donne sembra che non ci siano mai abbastanza ragioni per rompere il muro della diseguaglianza, come se il comune battesimo non fosse sufficiente. Non si riesce a credere che la dignità delle donne stia davvero a cuore alla chiesa, quando si teme di condividere il ministero, facendone di fatto un privilegio maschile”.

Dopo un lungo inverno, dunque, il mondo cattolico, sia pure in modo frammentato, a volte incerto, ma certamente con passione, sta ricominciando a discutere liberamente di tutto, a cercare un’interlocuzione col mondo, a dare una lettura cristiana – e critica del modello di sviluppo – delle crisi contemporanee. È presto per capire fin dove arriverà il tentativo di Francesco, ma un processo – come ama dire il papa – è stato aperto.

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