08 marzo 2013 18:30

Per Dario Fo essere chiamato populista non è più un problema. “Il dizionario dice che populista è colui che intende migliorare la posizione del popolo permettendogli di sfuggire alle violenze della classe dominante, ai ricatti e allo sfruttamento. Quindi è un termine positivo”, ha scritto recentemente sul blog di Beppe Grillo.

Anche nella stampa europea l’affermazione del Movimento 5 stelle ha provocato una radicale rivalutazione del concetto. Il belga De Morgen ha compilato una tassonomia di partiti e movimenti populisti attivi nel continente, distinguendo quelli nazionalisti e xenofobi come i Veri finlandesi da quelli di matrice libertaria e partecipativa come l’M5s. Per El País il populismo è come il colesterolo: c’è quello cattivo, come il neofascismo di Alba dorata e il berlusconismo, e quello buono degli indignados e di Grillo.

In realtà la definizione data da Fo è un po’ troppo ottimistica. Per i sociologi a caratterizzare il populismo è piuttosto la contrapposizione tra il “popolo” inteso come totalità del corpo sociale (il “cento per cento” citato da Grillo nella sua intervista a Time) e un gruppo ostile ed estraneo, che può essere incarnato a seconda dei bisogni dalle élite finanziarie, dalle minoranze etniche o dalla “casta”.

I primi a definirsi populisti furono i narodniki russi di fine ottocento, seguiti dal Party of the people statunitense (che, guarda caso, scomparve dopo pochi anni anche a causa di uno sfortunato accordo con il Partito democratico). Il termine ha acquisito una connotazione negativa solo in seguito, quando è stato usato per definire i regimi autoritari latinoamericani basati sulla pretesa del sostegno delle masse. In Europa è stato invece praticamente inapplicato per decenni. Un modello sociale più equo, una ripartizione più equilibrata dei redditi e un sistema politico più complesso e basato sugli interessi di classe scoraggiavano una lettura troppo semplicistica della società.

Il termine populismo è improvvisamente divenuto mainstream intorno al 2009: la crisi delle banche e le misure di austerità con cui sono stati finanziati i salvataggi hanno generato una varietà di movimenti di opposizione di ogni colore, diversi in tutto tranne che nella denuncia (o nello sfruttamento) della palese disparità di trattamento tra responsabili e vittime del disastro. Per oltre tre anni l’etichetta “populista” è stata usata per liquidare ogni opposizione alla linea dettata da Bruxelles e Berlino, e per un po’ ha funzionato. Ma come ha scritto Simon Jenkins sul Guardian, ora il vento sta cambiando un po’ in tutta Europa.

L’aumento della diseguaglianza - da anni reale e improvvisamente percepito - all’interno delle società europee sta creando una realtà sempre più somigliante a quella descritta dai populisti. Le elezioni italiane hanno suonato un allarme che i leader europei non potevano non sentire: in Svizzera un referendum sulla proposta di limitare lo stipendio dei manager è stato approvato da una maggioranza schiacciante. Francia e Germania stanno già considerando l’introduzione di misure simili. Il Parlamento europeo vuole imporre un tetto ai bonus per i banchieri. Forse sono ancora in tempo. In Italia, uno dei paesi Ocse con il più alto coefficiente Gini di diseguaglianza, qualcuno avrebbe dovuto pensarci prima di portare i banchieri al governo.

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