18 novembre 2015 15:03

Dopo gli attacchi di gennaio contro Charlie Hebdo e il supermercato kosher, che avevano provocato 17 morti, i francesi pensavano di aver vissuto il loro 11 settembre: un attacco inedito che aveva trascinato il paese in una spirale di solidarietà e di ritorsioni. Lo slancio di solidarietà nazionale e internazionale che ne è seguito e il rafforzamento delle misure di sicurezza e di sorveglianza avevano fatto sperare che gli eventuali imitatori dei fratelli Kouachi e di Amedy Coulibaly avrebbero desistito di fronte alla coesione e alla determinazione dei francesi a non cedere al panico.

Come sappiamo, non è andata così. Già all’indomani degli attacchi di gennaio gli esperti avevano avvertito che rafforzare le misure di sicurezza e le operazioni militari contro il gruppo Stato islamico (Is) non sarebbe bastato e che nuovi attacchi erano probabili. “La domanda non è se, ma quando”, dicevano. L’adozione all’inizio di maggio di una nuova legge sull’intelligence, un “Patriot act alla francese”, non è bastata a evitare le stragi del 13 novembre. E appare sempre più evidente che la Francia e l’Europa sono disarmate contro il terrorismo jihadista.

È sempre la stessa storia: si lascia crescere un mostro e poi ci si lamenta quando si scatena

In un intervento televisivo circolato parecchio sui social network, l’ex capo della sezione antiterrorista del tribunale di Parigi, Marc Trévidic, ha spiegato che “i jihadisti che abbiamo arrestato dopo l’attacco a Charlie ci dicevano una sola cosa: il gruppo Stato islamico sogna di colpire la Francia. Uno di loro ha anche detto che gli avevano chiesto di colpire durante un concerto”. Secondo Trévidic, peraltro, “l’Is ha tanta, troppa gente” pronta a compiere attentati suicidi in Francia: “Anche se alcuni falliscono, ce ne saranno altri pronti a partire, perché, contrariamente ad Al Qaeda, l’Is ha la possibilità di ‘sprecare’ il suo personale”.

Trévidic, anche piuttosto critico nei confronti della legge sull’intelligence, ha aggiunto che ormai “l’Is ha una capacità di sviluppo notevole perché per tre anni è stato lasciato crescere indisturbato. Risultato: è diventato potentissimo; e quando un gruppo terroristico è forte, si esporta. Al Qaeda ne è stato l’esempio. È sempre la stessa storia: si lascia crescere un mostro e poi ci si lamenta quando si scatena”.

Lo scontro è appena cominciato

Il giudice ha aggiunto che “per dieci anni non si è fatto nulla per contrastare la propaganda e il reclutamento jihadista su internet, nelle carceri, nelle moschee”. Inoltre, è difficile opporre un contrasto, ha affermato, perché “siamo amici di gente – l’Arabia Saudita, il Qatar – che sostiene la stessa ideologia wahhabita dei terroristi e facciamo affari con loro”.

E ora, che cosa succederà? Secondo Trévidic, “per cinque-sei mesi l’Is osserverà le nostre reazioni e quali misure prenderemo, sperando nel pugno di ferro contro la comunità musulmana in modo che si radicalizzi ancora di più” perché, spiega, la strategia del gruppo Stato islamico “è di spingere i musulmani alla rivolta”.

Un’analisi condivisa dallo storico e specialista dell’argomento Jean-Pierre Filiu, secondo il quale i terroristi vogliono “rappresaglie contro i musulmani. Vogliono la guerra civile in Francia”. Filiu denuncia poi la memoria corta degli occidentali, affermando che “dopo Charlie e il supermercato kosher, pensavamo che fosse finita, ma in realtà lo scontro è appena cominciato. E tutto ciò che fanno per il momento funziona: stanno imponendo le loro priorità al mondo intero. Fin dalla primavera del 2014, quindi prima che proclamassero il califfato, c’erano in Iraq, nel cuore dell’Is, dei francesi che volevano destabilizzare la Francia, che puntavano a scatenare la guerra civile”.

È chiaro che molti dei cinque milioni di musulmani francesi preferiscono vivere in questa Francia che sotto il califfato

La società francese è però ancora molto solidale e, più che spaccarsi dopo gli attacchi di Parigi, si è stretta intorno alle vittime e ai loro parenti. Non ci sono state le dissociazioni che si sono sentite qui e là dopo il massacro a Charlie Hebdo, i distinguo e i “Je ne suis pas Charlie” che volevano segnare una presa di distanza rispetto alle posizioni violentemente antireligiose e dissacranti del giornale.

Probabilmente perché questa volta le vittime sono state scelte a caso (tra loro ci sono anche dei musulmani) e rappresentano più un campione di una certa generazione – giovani urbani aperti e cosmopoliti – che non dei bersagli precisi, colpiti a causa delle loro idee o azioni, come ha anche sottolineato di recente lo specialista dell’islam Gilles Kepel. Anche se molti degli oltre cinque milioni di musulmani francesi si sentono discriminati o stigmatizzati in patria, è chiaro che preferiscono vivere in questa Francia, a costo di sentirsi per alcuni dei cittadini di seconda classe, che sotto il califfato.

Un “patto di sicurezza” ispirato anche dalla destra

È interessante a questo proposito notare che, rispetto agli attacchi di gennaio, l’aspetto religioso quasi non è stato evocato, e non a caso: Charlie era stato un bersaglio perché considerato blasfemo. La stessa rivendicazione da parte dell’Is degli attacchi del 13 novembre è più incentrata sui “paesi crociati”, Francia e Germania, entrambi presenti in Iraq a diverso titolo e che “colpiscono i musulmani nelle terre del califfato”, e sugli “idolatri” nelle “feste della perversione”.

È in forza di questa nuova coesione che il 16 novembre il presidente francese François Hollande ha potuto chiedere al parlamento di riformare la costituzione per adattarsi meglio alla guerra di lungo corso contro il terrorismo e annunciare un “patto di sicurezza” ispirato anche dalla destra.

In quella occasione Hollande ha anche annunciato il ricorso, per la prima volta da quando è stato introdotto nei trattati europei, all’articolo 42.7, che prevede che “qualora uno stato membro subisca un’aggressione armata nel suo territorio, gli altri stati membri sono tenuti a prestargli aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso” (l’equivalente dell’articolo 5 di mutua assistenza del trattato Nato).

Europol, l’agenzia di polizia europea, non ha un polo antiterrorismo in grado di coordinare l’attività dei servizi d’intelligence

Si tratta di far passare il messaggio secondo il quale se si tocca la Francia, si tocca l’insieme dell’Unione: Hollande, insomma, ha deciso di prendere in parola tutti coloro che, in Europa, hanno espresso la loro solidarietà con Parigi all’indomani degli attentati, e di proporre una politica comune contro l’Is.

Il 17 novembre, perciò, il ministro della difesa francese Jean-Yves Le Drian ha presentato ufficialmente la domanda della Francia ai suoi colleghi dell’Unione europea, che hanno accettato all’unanimità. Tuttavia, sottolinea Contexte, “a Bruxelles nessuno sa davvero come funziona concretamente la procedura, che non è mai stata usata prima, né concretamente che tipo di sostegno i partner europei potranno portare alla Francia. Le ipotesi vanno da quello logistico all’intelligence all’appoggio tattico sul terreno”.

Uniti di fronte alla minaccia terroristica, gli europei hanno anche deciso di introdurre dei controlli “coordinati e sistematici” alle frontiere dell’Unione, di mettere finalmente in piedi un database europeo dei dati dei passeggeri (il cosiddetto Passenger name record, Pnr) e di rafforzare gli scambi tra servizi d’intelligence.

E proprio questi ultimi punti sono da anni in discussione in seno alle istituzioni europee e tra le capitali dei ventotto – che mantengono l’essenziale delle competenze in materia di sicurezza – e Bruxelles.

Come sottolinea Le Monde, il parlamento europeo è rigido sull’applicazione delle normative di protezione della privacy. Quindi, è favorevole allo scambio dei dati sugli atti transnazionali – quelli compiuti da una stessa persona in diversi paesi – ma non dei dati sugli atti commessi in un unico paese. Solo i singoli stati possono decidere di condividere questi dati con i loro partner. Peraltro, i database dei Pnr nazionali non sono interconnessi “il che limita la loro efficacia dinanzi alle reti criminali transnazionali”. Come aveva denunciato mesi fa l’economista Loretta Napoleoni, “l’Europa non ha i mezzi per combattere i jihadisti sul suo territorio”.

A rendere il quadro ancor più cupo si aggiunge il fatto che Europol, l’agenzia di polizia europea, non dispone di un polo antiterrorismo in grado di coordinare l’attività dei servizi d’intelligence, centralizzando e diffondendo le informazioni che gli vengono trasmesse: la sua creazione, in cantiere da anni, avverrà nel 2016 “nella migliore delle ipotesi”.

L’uomo più ricercato d’Europa

E proprio l’assenza di coordinamento tra servizi d’intelligence europei sembra aver giocato un ruolo importante nel successo degli attacchi di venerdì: secondo un alto funzionario turco intervistato da Al Jazeera, Ankara aveva trasmesso a Parigi il nominativo di Omar Ismail Mostefai nel dicembre scorso e poi di nuovo a giugno, ma le autorità francesi non avevano dato seguito all’informazione. Allo stesso modo, l’Associated Press ha rivelato che degli alti responsabili iracheni avevano avvertito la Francia dell’imminenza di un attacco a Parigi, pianificato a Raqqa, in Siria, e messo in atto da una cellula dormiente.

Forse l’esempio più eclatante delle conseguenze dell’assenza di coordinamento tra servizi d’intelligence è la fuga di Salah Abdeslam, fratello di uno dei kamikaze di Parigi: dopo aver partecipato alle sparatorie è stato aiutato da due amici venuti apposta da Bruxelles. Nella notte tra venerdì e sabato la loro auto è stata fermata ben tre volte dalla polizia francese, che ogni volta l’ha lasciata ripartire. Poche ore dopo Abdeslam è stato dichiarato nemico pubblico numero uno e ora è tra gli uomini più ricercati d’Europa.

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