11 dicembre 2014 16:07

Rispetto al 2013, è stato più difficile scegliere i dieci dischi più belli dell’anno. La buona musica nel 2014 non è mancata, ma non ci sono stati album nettamente superiori agli altri. Nel 2013, giusto per citarne tre, sono usciti Push the sky away di Nick Cave, Random access memories dei Daft Punk e Fanfare di Jonathan Wilson. Ma anche John Grant, i Knife e Bill Callahan.

Quest’anno è andata meno bene, ma comunque non ci possiamo lamentare. Per fare una sintesi veloce: The War On Drugs vincono a mani basse, Damon Albarn si conferma un artista di grande spessore, i Cloud Nothings ormai sono una realtà e Fka Twigs merita il premio come artista esordiente del 2014. Bando alle ciance, ecco il listone.

1. The War On Drugs, Lost in the dream
La forza dei War On Drugs, la band guidata da Adam Granduciel, sta tutta nel mettere insieme due generi apparentemente inconciliabili: il cantautorato di Bruce Springsteen, Bob Dylan, Mark Knopfler, e la psichedelia degli anni sessanta e settanta, quella che parte dai primi Pink Floyd e arriva fino al krautrock tedesco. Per questo dei brani che sembrano usciti da Born to run nelle mani di Adam Granduciel si trasformano in lunghe cavalcate lisergiche. Lost in the dream è un disco bellissimo, ispirato e senza tempo.

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2. Damon Albarn, Everyday robots
Gli aggettivi per Damon Albarn ormai sono finiti. Dopo i Blur, i Gorillaz, il progetto Africa Express, i musical e tutto il resto, il musicista londinese continua a sfornare musica di qualità con ostentata naturalezza. Everyday robots, il suo primo disco solista, è un album subdolo. All’inizio lascia quasi indifferenti, ma con gli ascolti cresce molto. Pezzi come Hostiles, Lonely press play e Heavy seas of love non si sentono tutti i giorni.

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3. Future Islands, Singles
La band di Baltimora ha trovato la maturità. Singles è una raccolta di canzoni intense e orecchiabili. Il cantante del gruppo, Samuel T. Herring, è una rockstar nata. Seasons (Waiting on you) è il pezzo pop del 2014.

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4. St. Vincent, St. Vincent
Dopo aver frequentato David Byrne, Annie Clarke ne è uscita artisticamente rigenerata, assorbendo come una spugna parte dello stile del fondatore dei Talking Heads. Risultato: St. Vincent è l’album più bello della sua carriera.

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5. Cloud Nothings, Here and nowhere else
Il precedente album Attack on memory, prodotto da Steve Albini, è stata una piacevole sorpresa. Se possibile, Here and nowhere else è superiore e conferma che i Cloud Nothings sanno fare una cosa difficile: scrivere canzoni con un vestito punk e un cuore pop. Il tutto mantenendo una qualità costante negli arrangiamenti. Cosa volete di più?

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6. Fka Twigs, Lp1
Dietro lo pseudonimo Fka Twigs si nasconde la cantautrice e ballerina venticinquenne Tahliah Barnett. Un angelo nero, che balla sulle ceneri del trip hop e si immerge nell’elettronica dubstep. Il suo disco d’esordio, Lp1, è un saggio di bravura e sensualità, anche grazie alla produzione del venezuelano Arca.

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7. Sharon Van Etten, Are we there
Sharon Van Etten affronta la vita in modo melodrammatico. Le sue canzoni d’amore (Your love is killing me) sembrano uscite da un libro noir. Are we there è il disco della sua maturità artistica, il punto d’equilibrio finalmente raggiunto tra le influenze e le ispirazioni: Jeff Buckley, i National e Lou Reed.

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8. Jack White, Lazaretto
Jack White è una delle poche e vere rockstar rimaste in circolazione. Dal vivo ha pochi rivali. Ma anche in studio si difende ancora bene. Lazaretto conferma che la sua carriera solista funziona. Stavolta negli arrangiamenti c’è anche un po’ di elettronica e l’influenza dell’hip hop si fa sentire, soprattutto nelle parti cantate.

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9. Swans, To be kind
I nuovi Swans di Michael Gira sono una creatura strana. Le loro canzoni spesso partono piano, ma diventano pian piano un muro sonoro difficile da fermare. To be kind, il loro secondo disco dopo la reunion del 2010, non è all’altezza del mezzo capolavoro The seer, ma è un album di tutto rispetto.

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10. Syd Arthur, Sound mirror
I Syd Arthur sono una band sottovalutata. È vero, sono derivativi, perché pescano a piene mani dalla scena di Canterbury (Caravan, Soft Machine). Ma riescono comunque a risultare freschi e attuali. Il frontman Liam Magill ha una voce non comune, che rimanda un po’ a Thom Yorke.

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Se interessa, ho fatto una playlist su Spotify, scegliendo due canzoni per ogni album.

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