05 giugno 2016 14:19

È difficile non arrivare stanchi alla fine del Primavera sound. Quattro giorni consecutivi di concerti, calca e musica da tutte le parti lasciano tanto soddisfatti quanto vogliosi di stravaccarsi sul divano per un paio di giorni.

Il bilancio dell’edizione 2016 è positivo. Il programma è stato di livello assoluto, per qualità e varietà dell’offerta. Dal punto di vista del pubblico, le cose sono andate bene: al parc del Fórum, la zona che ha ospitato la maggior parte dei concerti, sono venute in tutto più di 165mila persone, 55mila per ognuna delle tre sere del 2, 3 e 4 giugno. Contando gli eventi gratuiti sparsi per la città, come hanno dichiarato gli organizzatori durante la conferenza stampa conclusiva, al Primavera sound nel 2016 ci sono stati più di 200mila spettatori.

Non c’è praticamente un genere musicale che non sia stato toccato dal festival catalano, che quest’anno ha rinnovato due palchi: il Beach club, il tendone sulla spiaggia dedicato ai dj set e alla musica elettronica, e soprattutto il museo d’arte contemporanea di Barcellona, che di giorno ospitava il Primavera Pro, con concerti e conferenze.

Questa è stata la novità più interessante: un luogo rilassato dove ascoltare gruppi sconosciuti ai più e dove seguire dibattiti tra gli addetti ai lavori. Una specie di piccolo South by southwest europeo. E qui mi è capitato di fare incontri musicali bizzarri, come quello con i sudcoreani Wedance.

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Tra i pochi appunti da fare al festival c’è quello dei volumi: quest’anno, più degli altri anni, a tratti è sembrato troppo basso, soprattutto sui palchi più grandi. Chiedere livelli da stadio è forse fuori luogo, ma se gli organizzatori hanno intenzione di fare concerti simili a quello dei Radiohead forse devono aggiustare qualcosa a livello logistico.

Il 4 giugno è stato il giorno di PJ Harvey: il suo concerto sul palco Heineken è stato per distacco la cosa migliore della serata. Polly Jean Harvey ha presentato dal vivo il suo nuovo album, The Hope six demolition project, che non sarà all’altezza del meraviglioso Let England shake ma è pur sempre un ottimo disco.

Il concerto si apre alle dieci. La band entra sul palco percuotendo dei tamburi per introdurre la marziale Chain of keys, uno dei brani migliori del nuovo disco. PJ Harvey, come l’ha definita il mio collega Daniele Cassandro, è una “Medea scosciata”, tutta in nero. La sua presenza scenica è granitica e la sua voce non perde un colpo.

L’incontro artistico e amoroso con Nick Cave, per stessa ammissione di PJ Harvey, qualche anno fa le ha cambiato la carriera. E se c’è un fantasma che si aggira sul palco, quasi a vegliare sull’intero show, è proprio quello del cantautore australiano. Non è un caso che, oltre all’onnipresente John Parish, alla destra della cantante ci sia Mick Harvey, fondatore dei Birthday Party e dei Bad Seeds.

Piccola sbandata patriottica: sul palco ci sono anche due ottimi musicisti italiani: il polistrumentista Enrico Gabrielli (ai più noto come leader dei Calibro 35) e Alessandro Stefana, detto “Asso”, già chitarrista di Mike Patton e Vinicio Capossela.

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La scaletta del concerto procede spedita, pescando a piene mani da The Hope six demolition project ma regalando anche qualche canzone del passato, soprattutto da Let England shake: the words that Maketh murder e The glorious land sono tra i momenti più alti.

C’è spazio anche per un paio di chicche più datate, come 50ft queenie, estratta dal secondo disco Rid of me, e la sempre potente To bring you my love. Peccato che sia durato poco più di un’ora, PJ Harvey meritava lo stesso tempo concesso a Lcd Soundsystem e Radiohead. Il suo è stato sicuramente uno dei migliori concerti del festival.

Il mio Primavera sound è proseguito con un pezzo del concerto dei Parquet Courts, davvero bravi e rumorosi, e una scappata da Ty Segall, potente e autoironico. E si è concluso con i Moderat, che hanno inondato con la loro elettronica eterea un pubblico coinvolto e attento, anche grazie a una scenografia impressionante. La parte visuale del concerto è stata quasi più bella di quella musicale.

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L’anno prossimo il Primavera si terrà dal 31 maggio al 4 giugno. Cosa s’inventeranno stavolta? Trovare headliner come quelli di quest’anno, tanto “famosi” quanto perfetti per il target del festival, non sarà semplice.

Le strade sono due: o si prosegue rispettando l’identità del Primavera con gruppi come National, Arcade Fire o Nick Cave, oppure si provano nuove mosse a sorpresa: le reunion storiche ormai sono state fatte quasi tutte, a parte quella degli Smiths, che sembra fantascienza.

Che il Primavera decida di chiamare qualche “grande vecchio” come gli Who o Bruce Springsteen, come già aveva fatto con Neil Young qualche anno fa o come aveva tentato di fare con Prince? Non si sa, però è innegabile che questo non sia più il festival di dieci anni fa. Qualcosa è cambiato, nel bene e nel male.

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