20 febbraio 2017 16:45

Rumoroso, noioso, stupido, infantile, sciatto, fiacco. Questi sono solo alcuni dei termini usati dalla critica musicale dell’epoca per descrivere l’album d’esordio degli Stooges, uscito nel 1969. Forse perché, negli anni di Woodstock e del flower power, la critica era stata colta alla sprovvista dalla band di Iggy Pop. In mezzo a tanti messaggi di pace e amore universale, era sbucato fuori un tizio la cui massima aspirazione era essere il cane della sua donna. Del resto anche il mondo alternativo ha sempre avuto i suoi codici da rispettare.

Il punto è che gli Stooges di Iggy Pop erano troppo avanti per l’epoca. Avevano capito che l’utopia degli anni sessanta era destinata a finire presto, che il nichilismo poteva e doveva essere una nobile forma d’espressione artistica. Avevano interiorizzato la musica dei Velvet Underground come pochi altri, e avevano anticipato il punk, la new wave, l’hard rock e in parte il metal con una lungimiranza sorprendente.

Per questo il fatto che un regista importante come lo statunitense Jim Jarmusch abbia deciso di dedicare un documentario agli Stooges è un’ottima notizia per gli appassionati di musica. Il film, intitolato Gimme danger, è uscito negli Stati Uniti a ottobre e sarà nei cinema italiani per due soli giorni: il 21 e 22 febbraio.

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Gimme danger, distribuito nel nostro paese da Bim e Nexo Digital, prende il titolo da una canzone dell’album Raw power ed è un sincero atto d’amore nei confronti della musica della band. Jarmusch confessa di essere un fan degli Stooges fin dai primi fotogrammi, definendoli “la più grande rock’n’roll band di tutti i tempi”.

Dimmi chi erano gli Stooges
Gimme danger è molto semplice dal punto di vista narrativo. È costruito su una lunga intervista che il regista ha fatto a James Osterberg, in arte Iggy Pop, il leader carismatico e cantante della band statunitense. Jarmusch si è fatto un po’ da parte, lasciando alla voce cavernosa di Iggy il compito di raccontare la nascita, lo scioglimento e la successiva riconciliazione del quartetto statunitense. C’è sempre il suo stile da regista, fondato su uno spirito indie a base di minimalismo e autoironia, ma emerge in modo molto discreto.

Gli Stooges erano quattro giovani un po’ ingenui e idealisti che volevano fare musica e guardavano con disincanto il crescente movimento hippy

La storia degli Stooges è quella di quattro ragazzi della middle class, figli del Michigan industriale, che si sono conosciuti nella città di Ann Arbor. A far parte della band erano Iggy Pop, un ex batterista cresciuto dentro una roulotte con i suoi genitori (il padre non era povero, solo eccentrico), i fratelli Scott (batterista) e Ron Asheton (geniale chitarrista che aveva l’inquietante abitudine di collezionare cimeli nazisti) e il bassista Dave Alexander.

Ad Ann Arbor, in quegli anni, c’era fermento politico e anche qualche tensione con la polizia, un po’ come in tutto il paese. C’erano personalità come John Sinclair, poeta socialista e fondatore del movimento antirazzista delle Pantere bianche. In città venivano a suonare band come gli MC5, un altro gruppo fondamentale della storia del rock, principali esponenti di una scena tipica del Michigan, nella quale i giovani bianchi e neri ascoltavano la stessa musica, in cui il soul si mescolava al rock’n’roll.

Gli Stooges, come confessa lo stesso James Osterberg nel documentario, erano quattro giovani un po’ ingenui e idealisti che volevano fare musica e guardavano con disincanto il crescente movimento hippy. Vivevano da comunisti, condividendo musica, casa e soldi, ma non avevano alcuna intenzione di impegnarsi direttamente in politica. Fu proprio grazie agli MC5, che li avevano voluti come gruppo spalla, che gli Stooges riuscirono a diventare una delle band più attive della zona e a ottenere il primo contratto discografico con la Elektra Records.

Sono due le caratteristiche che hanno reso unici gli Stooges: il suono della band (frutto della granitica sezione ritmica e della chitarra di Ron Asheton) e il carisma di Iggy Pop, famoso anche per la sua disturbante presenza scenica, che comprendeva episodi di autolesionismo in pubblico e costanti provocazioni sessuali. Una ricerca della trasgressione costruita sull’ironia, al limite della comicità, forse in modo molto meno naïf di quello che si potrebbe pensare.

Iggy Pop nel documentario appare tutto fuorché un tossico vaneggiante e depravato, un’immagine che lui stesso ha alimentato negli anni, anche per convenienza. Jarmusch ci fa capire che il cantante aveva ben chiaro il suono che voleva dalla sua band. James era affascinato fin da piccolo dal rumore dei macchinari industriali di Detroit e voleva che sul palco gli Stooges fossero in grado di restituire la forza e la violenza di quella realtà industriale, mescolando le sperimentazioni del compositore statunitense Harry Partch, il jazz di Sun Ra, il rock’n’roll e il blues di Bo Diddley. I testi delle canzoni non dovevano mai superare le 25 parole, dovevano essere diretti, nichilisti e provocatori.

Stage diving e burro d’arachidi
Gimme danger ricostruisce in modo efficace, sempre attraverso il punto di vista dell’Iguana, il modo in cui gli Stooges vivevano la musica, con tanto istinto e spesso poca professionalità.

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Il documentario di Jarmusch racconta la nascita del disco d’esordio, The Stooges, prodotto da John Cale dei Velvet Underground e registrato a New York. L’album fu inizialmente respinto dalla casa discografica e costrinse la band a scrivere di getto dei pezzi nuovi prima di tornare in studio. Come racconta Iggy, il brano Not right fu suonato per la prima volta direttamente in sala d’incisione. Gimme danger ricostruisce come sono nati gli storici riff di I wanna be your dog, un inno alla sottomissione sessuale in cui Iggy Pop confessava alla sua partner di voler diventare il suo cane, e quello tanto semplice quanto immortale di No fun, amato e risuonato da centinaia di band, primi fra tutti i Sex Pistols.

Gimme danger rende giustamente omaggio anche a Fun house, il secondo album degli Stooges, un capolavoro di sperimentazione che fu registrato a Los Angeles insieme al sassofonista Steve Mackay che ha ancora oggi un suono perfetto, in equilibrio tra furia prepunk e jazz alla Miles Davis.

Iggy Pop è un divulgatore efficace: lucido, ironico e spigliato. Racconta la prima volta in cui fece stage diving, nel 1970: si tuffò sulla folla sperando di essere raccolto, ma il pubblico si spostò e lui si ruppe i denti davanti. Ricorda il momento in cui, dopo aver visto un collare per cani in un negozio, decise di comprarlo e di indossarlo tutti i giorni, anche fuori dal palco.

Gimme danger raccoglie tanti altri aneddoti che piaceranno ai fan. Per esempio il giorno in cui Iggy Pop stava per essere investito da John Wayne a un incrocio di Santa Monica, o quando fu arrestato per aver creato disordini a un concerto, di quando scoprì l’erba e l’eroina, di quando incontrò David Bowie. Ne ha passate talmente tante che verrebbe voglia di ascoltarlo per ore.

Ai piedi di Iggy
Gimme danger però ha un paio di difetti. Il primo, che non è colpa di Jim Jarmusch, è quello più fastidioso: ci sono pochi filmati d’archivio. A parte qualche breve filmato del 1969, qualche spezzone del concerto a Cincinnati nel 1970 (quello dove Iggy indossa un collare da cane e si fa cospargere il petto di burro d’arachidi) e le immagini girate dopo la reunion del 2003, non ci sono altre testimonianze dei leggendari concerti della band. Il regista statunitense è bravo nel coprire questa lacuna con disegni, animazioni e scene prese da vari film dell’epoca, ma a lungo andare il documentario ne risente.

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Un altro difetto, e in questo caso è colpa di Jarmusch, è la prospettiva da fan attraverso la quale viene vista tutta la vicenda. Il punto di vista del regista è chiaramente subordinato a Iggy Pop e la narrazione è fin troppo piegata alla volontà del cantante. Mancano i punti di vista esterni (se si eccettuano quelli degli altri Stooges). Viene in mente l’esempio di Martin Scorsese, che nel suo documentario su Bob Dylan, No direction home, era stato più efficace nel distanziarsi dal soggetto. Per fare un esempio più recente, anche Liz Garbus è stata efficace nel non farsi sovrastare da una figura ingombrante come Nina Simone nel bellissimo What happened, Miss Simone?. E manca, a dirla tutta, un minimo approfondimento sulla scena di Detroit, che in questo caso resta molto, troppo, sullo sfondo.

Sul finale del film, Iggy Pop dice: “Non voglio far parte del glam o della musica alternativa, di nessuna di queste cose. Non voglio essere punk. Voglio solo essere”, portando a compimento la sua autocelebrazione. Gimme danger è questo, del resto. È un giusto tributo a una band mai abbastanza celebrata. È un film imperdibile per i fan degli Stooges e per gli appassionati di musica rock, ma potrebbe risultare non così esaltante per chi non rientra in queste due categorie.

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