19 settembre 2020 13:36

The Flaming Lips, Flowers of Neptune 6
Non si capisce mai a fondo una persona se non si visita il posto dov’è nata, o dov’è cresciuta. Per questo quando ho letto che American head, il sedicesimo disco dei Flaming Lips, sarebbe stato dedicato alle “radici americane” del gruppo e ai loro luoghi d’origine mi sono leccato i baffi. Perché, come ha scritto su AllMusic Heather Phares nella recensione che abbiamo tradotto questa settimana su Internazionale, “questo è il disco che i Flaming Lips dovevano fare e che i loro fan dovevano ascoltare a questo punto della carriera del gruppo”. Per parafrasare Bob Dylan, i Flaming Lips hanno riportato tutto a casa, registrando il loro disco più autobiografico.

La band di Oklahoma City ha pescato a piene mani dai ricordi di Wayne Coyne e Steven Drozd, cresciuti nei primi anni settanta con i loro fratelli e amici motociclisti, e dipinge una realtà lontana e distorta, infantile e disperata. Un’America in bianco e nero ma cupa, filtrata dalle droghe che Coyne sperimentava ai tempi. La sintesi dell’album è tutta nel verso di At the movies on quaaludes, descrizione di un pomeriggio al cinema sotto effetto del quaalude, un potente antidepressivo con effetti allucinogeni: “As we destroy our brains ’til we believe we’re dead, it’s the American dream in the American head”. È il ribaltamento beffardo del sogno americano, il contrario dello Springsteen di My hometown, che osservava lucido il modo in cui la deindustrializzazione aveva cambiato il New Jersey, ma non ha neanche l’innocenza degli Arcade Fire nel raccontare le periferie del Texas nello splendido The suburbs.

Insomma, i Flaming Lips hanno preso un archetipo americano e l’hanno affrontato a modo loro, con il solito gusto sghembo per il pop, intingendo come sempre i loro brani in una tavolozza di colori presi in prestito da Pink Floyd, Robert Wyatt e tanti altri maestri del rock anni sessanta e settanta. A detta di Coyne, in realtà, questo sarebbe anche un tributo ai Mudcrutch, la prima band di Tom Petty. Ma il suono dei brani ha davvero poco di simile a quello che faceva Petty.

American head è anche un ritorno alla melodia (si erano già visti segnali incoraggianti l’anno scorso in King’s mouth) di dischi del passato come Yoshimi battles the Pink robots, ma ha un’oscurità e una malinconia tutta sua. I Flaming Lips sono arrivati al sedicesimo disco e hanno ancora un sacco di cose da dire. Anche stavolta la band ha tirato fuori una serie di trovate sonore molto interessanti, a partire dalle ospitate della cantante country Kacey Musgraves, che arricchisce brani come l’acida Flowers of Neptune 6. Chi li discute ha del coraggio, veramente.

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Bruce Springsteen, Letter to you
A proposito di Bruce Springsteen, ecco chi si rivede. Il Boss il 23 ottobre pubblicherà il suo nuovo album, che ha registrato in soli cinque giorni in presa diretta insieme alla sua fedele E-Street Band. Nel disco ci sono anche delle nuove versioni di tre brani inediti degli anni settanta: Janey needs a shooter, If I was the priest e Song for orphans.

Il primo singolo estratto non è un capolavoro, va un po’ con il pilota automatico, ma la classe di Springsteen è sempre lì, mica sparisce. E sentir suonare di nuovo insieme la E-Street Band fa piacere. L’unico rammarico è che, se non ci fosse stato il covid-19, probabilmente tra poco sarebbe arrivato l’annuncio di un tour mondiale, e invece niente.

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Ela Minus, megapunk
Ci sono brani pop che funzionano più per il ritmo che per la melodia. E la colombiana trapiantata a New York Ela Minus ne è un perfetto esempio. Sono le percussioni e le batterie elettroniche a rendere notevoli i suoi pezzi, come questa megapunk. Ela viene dal punk e dall’hardcore, e si sente. Nel suo disco d’esordio, acts of rebellion, la musicista parla di grandi temi: politica, ribellione, internet. Non l’ho ancora ascoltato, ma a giudicare dai primi estratti promette molto bene. Anche quello esce il 23 ottobre.

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Nubya Garcia, Pace
Ennesimo talento cristallino del jazz britannico, classe 1991, Nubya Garcia è nata a Camden Town ed è figlia di madre guyanese e padre di Trinidad e Tobago. Le radici caraibiche della sua musica sono evidenti in brani come Pace, che fa parte del disco d’esordio Source.

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Gorillaz, Strange timez
I Gorillaz cantano la nostra complicata contemporaneità con l’aiuto di Robert Smith dei Cure. Damon Albarn evoca il covid-19 e le proteste in Bielorussia, mentre Smith canta come solo lui sa fare. Viste le premesse c’era da aspettarsi un mezzo capolavoro, invece manca qualcosa, peccato.

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P.S. Playlist aggiornata, buon ascolto!

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